La legge sul divorzio compie 50 anni: “l’inno all’amore” dell’On.le Nilde Iotti

Il 1 dicembre scorso la legge sul divorzio ha compiuto 50 anni.  

La legge numero 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) – conosciuta come “Fortuna-Baslini”, dal nome dei due deputati, Loris Fortuna (socialista) e Antonio Baslini (liberale) primi firmatari – fu approvata definitivamente dalla Camera il primo dicembre del 1970, in seguito a una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore.  

Essa rappresenta una pietra miliare nella lotta per i diritti civili. 

Il 25 novembre 1969, quando l’iter legislativo era ormai alle ultime battute, l’Onorevole Nilde Iotti chiese la parola in seno alla Camera dei Deputati e tenne un discorso diventato famoso nella storia dell’affermazione dei diritti delle donne all’interno del diritto di famiglia e del riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio. 

Le parole di Nilde Iotti sono un vero inno all’amore, un inno ai sentimenti che costituiscono il vero motivo che spinge oggi un uomo ed una donna a contrarre matrimonio e a costituire una famiglia”, scelta non più dettata, come in passato, da motivi di accasamento, di procreazione dei figli, di trasmissione del patrimonio e neppure da un fine di mutua assistenza. 

Precisa Nilde Iotti che i sentimenti da cui trae fondamento il matrimonio non vanno intesi come  

qualcosa di fragile o di sentimenti basati soltanto sull’attrazione fisica, che è cosa ben diversa dal sentimento che spinge al matrimonio, anche se l’attrazione fisica è parte di esso, e qualche volta ne costituisce il punto iniziale. Noi parliamo di sentimenti che investono profondamente la personalità dell’individuo” 

quei sentimenti che portano un uomo e una donna a donarsi reciprocamente l’uno all’altra, realizzando e affermando se medesimi nella famiglia e nella società.  

La famiglia, proprio perché basata sui sentimenti 

 “diviene centro di vita morale e di solidarietà” e “fondata su questa base essa non è un fatto caduco o destinato a passare, al contrario”. 

I sentimenti costituiscono, dunque, la base morale del matrimonio.  

Occorre, tuttavia, prendere consapevolezza che  

per quanto siano forti i sentimenti che uniscono un uomo e una donna – in ogni tempo, ma soprattutto, direi, nel mondo di oggi – essi possono anche mutare; e quando non esistono più i sentimenti, non esiste neppure più, per le ragioni prima illustrate, il fondamento morale su cui si basa la vita familiare. Abbiamo dunque bisogno di ammettere la possibilità della separazione e dello scioglimento del matrimonio”. 

Peraltro, se è vero che il divorzio mette fine al vincolo coniugale, esso non può considerarsi il momento di rottura di un matrimonio, risalente, piuttosto, alla fase precedente della separazione: la rottura della famiglia comincia, infatti, nel momento in cui i coniugi decidono di separarsi, ossia quando, per essersi logorati i sentimenti che mantengono uniti marito e moglie, la convivenza non è più possibile e quindi quella famiglia non ha più il suo fondamento morale. 

Né può pensarsi che un matrimonio debba e possa rimanere in vita per il bene dei figli. Al contrario:  

la condizione dei figli in una famiglia tenuta insieme per forza, in una famiglia dove la violenza o, peggio – dico peggio – l’indifferenza sono alla base dei rapporti dei coniugi, è la peggiore possibile, e causa la devastazione della loro personalità; peggio, assai peggio, questa condizione che non quella di un figlio o di più figli che vivono con uno solo dei genitori separati, perché almeno in questo caso è possibile mantenere un minimo di rispetto per i genitori, mentre nell’ambito di una famiglia basata o sulla violenza o, peggio ancora, sull’indifferenza dei coniugi, non può più aversi neppure il rispetto dei figli nei confronti dei genitori”. 

Nilde Iotti declama, poi, a gran voce la necessità che lo Stato rispetti e riconosca l’autonomia della famiglia, quale organismo che ha una sua vita e sue leggi morali, pur valorizzando il senso di grande responsabilità a cui sono tenuti i coniugi, reciprocamente verso se stessi e nei confronti dei figli. 

quando si tratta della famiglia siamo di fronte a una sfera di interessi e di sentimenti in cui lo Stato meno ci mette la mano e meglio fa”, “lo Stato deve perciò limitarsi ad esigere dai contraenti il matrimonio, dai protagonisti della famiglia, un grande senso di responsabilità; deve fissare le norme, molto precise, perché i cittadini siano obbligati a questo senso di responsabilità, e deve intervenire nella tutela dei figli”,  

Quindi, i nuovi principi fondanti una famiglia devono essere: “corresponsabilità dei due coniugi”, “parità dei coniugi nella conduzione della famiglia e nell’esercizio della patria potestà comune”, “comunione dei beni nel corso del vincolo familiare”. 

A tutela della prole, poi, lo Stato deve intervenire per far sì che nel momento della rottura dell’unità familiare, si mantenga il più possibile una relazione tra genitori e figli “che non solo abbia in sé rispetto, ma sia piena e completa”. Da qui la richiesta di abolire la colpa nella separazione (attesa la sua innegabile incidenza negativa nel rapporto tra i figli e il genitore accusato di colpa) e l’esigenza di ispirare tutte le norme in tema di affidamento esclusivamente all’interesse della prole, a prescindere da chi, tra i due coniugi, fosse il responsabile della fine del matrimonio. 

Una particolare attenzione rivolge Nilde Iotti ai figli nati fuori del matrimonio, che all’epoca erano stigmatizzati come “irregolari”, “adulterini”, e di cui Ella invoca il riconoscimento giuridico quale unica soluzione morale giusta, perché anche i figli nati fuori del matrimonio potessero avere la loro collocazione normale nella società e fossero riconosciuti, pure agli effetti legali, quali componenti di una loro famiglia. 

 “I figli non chiedono di venire al mondo e la responsabilità del fatto che siano venuti al mondo non è loro, è dei genitori che li hanno messi al mondo. Non può quindi ricadere su di loro la responsabilità dei genitori”. 

Come noto, il testo originario della legge sul divorzio ha subito diversi rimaneggiamenti nel corso di questi 50 anni, di pari passo con l’evoluzione del costume sociale e con la formazione di nuovi modelli di famiglia, come quello delle unioni omoaffettive che oggi – dopo la L. n. 76/2016 – trovano riconoscimento a livello sociale e giuridico.  

Qualche anno dopo l’approvazione della legge sul divorzio, nel 1975 fu emanata la legge sulla riforma del diritto di famiglia (n. 151) con cui è stata data piena attuazione, in seno al codice civile, al principio costituzionale di parità tra uomo e donna all’interno della famiglia. Sono susseguite altre conquiste, a livello legislativo, frutto di battaglie condotte nel segno della civiltà e di una moderna concezione delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone. Nel 2006, con la c.d. legge sull’affidamento condiviso (n. 54), viene introdotto il principio della bi-genitorialità, in base al quale è stato riconosciuto il diritto dei figli di mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori anche dopo la cessazione della loro convivenza, di ricevere cura, istruzione e educazione da entrambi e di mantenere rapporti con gli ascendenti e i parenti di ciascun ramo genitoriale. Deve attendersi ancora il  2012 per un’altra svolta epocale nell’alveo del diritto di famiglia: l’affermazione di un unico status giuridico della filiazione. Oggi tutti i figli, siano essi nati in costanza che fuori del matrimonio, adottivi o concepiti mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, sono uguali per la legge, senza distinzione di sorta e con il pieno riconoscimento giuridico dei legami parentali. 

Diritti delle donne: il discorso sul divorzio di Nilde Iotti, 1969 – Rai Teche

Il diritto di visita dei genitori separati/divorziati ai tempi del Coronavirus.

Dopo l’ordinanza del Ministero dell’Interno e della Salute del 22.03.2020, che riguarda il divieto di spostamento tra Comuni diversi, come comportarsi in ordine al diritto di visita dei figli minori?
Qualche consiglio per i genitori separati e divorziati… spero possa essere utile.

E’ convivenza anche senza coabitazione: quali sono gli effetti sull’assegno divorzile percepito dall’ex coniuge?

L’esistenza di una relazione affettiva, stabile e duratura tra due partner, caratterizzata dalla spontanea assunzione di reciproci obblighi di collaborazione e di contribuzione ai bisogni della nuova famiglia è idonea a configurare una convivenza di fatto, rilevante per il diritto, anche se i due partner non coabitano sotto lo stesso tetto.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione che ha cambiato recentemente il proprio indirizzo giurisprudenziale. Difatti, se in passato la coabitazione era considerata come un indice rilevante e ricorrente dell’esistenza di una famiglia di fatto, individuando essa l’esistenza di una casa comune all’interno della quale si svolge il programma di vita comune, secondo il più recente arresto giurisprudenziale per individuare un rapporto di convivenza è sufficiente che sussista un legame stabile tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione.

In proposito, con la recente sentenza del 13 aprile 2018, n. 9178 la Corte di Cassazione, richiamando e dando continuità al principio già espresso con la sentenza n. 7128 del 2013 ha chiarito che “è anche necessario prendere atto del mutato assetto della società, (…omissis…) dal quale emerge che ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato… A ciò si aggiunga, come ulteriore componente di cambiamento del modo di vivere e di concepire sia i rapporti sociali in generale che le relazioni interpersonali, la maggiore facilità ed economicità sia dei contatti telefonici e a video che dei trasporti. Tutti questi fattori di un cambiamento sociale che è ormai verificato nella società comportano che si instaurino e si mantengano rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in passato (non solo nella famiglie di fatto ma, ugualmente, anche all’interno delle famiglie fondate sul matrimonio) e devono indurre a ripensare al concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può appiattirsi sulla coabitazione. Sono tutte situazioni in cui può esistere una famiglia di fatto o una stabile convivenza, intesa come comunanza di vita e di affetti, in un luogo diverso rispetto a quello in cui uno dei due conviventi lavori o debba, per suoi impegni di cura e assistenza, o per suoi interessi personali o patrimoniali, trascorrere gran parte della settimana o del mese, senza che per questo venga meno la famiglia. Esistono anche realtà in cui le famiglie, siano esse di fatto o fondate sul matrimonio, si formano senza avere neppure, per un periodo di tempo più o meno lungo, una casa comune, intesa come casa dove si svolge la vita della famiglia, in quanto ognuno dei due partner è tenuto per i propri impegni professionali o per particolari esigenze personali, a vivere o a trascorrere la gran parte della settimana o del mese in un luogo diverso dall’altro. Alla luce di tutti questi elementi non ha più alcun senso appiattire la nozione di convivenza sulla esistenza di una coabitazione costante tra i partner, lasciando fuori dai margini della tutela ogni altra relazione, che pur sia stabile sia affettivamente sia sotto il profilo della reciproca assunzione di un impegno di assistenza e di collaborazione all’adempimento degli obblighi economici, ma sia dotata di un assetto organizzativo della vita familiare diverso da quello tradizionale (…omissis…) Il dato della coabitazione, all’interno dell’elemento oggettivo della convivenza è quindi attualmente un dato recessivo. Esso deve essere inteso come semplice indizio o elemento presuntivo della esistenza di una convivenza di fatto, da considerare unitariamente agli altri elementi allegati e provati e non come elemento essenziale di essa, la cui eventuale mancanza, di per sé, possa legittimamente portare ad escludere l’esistenza di una convivenza. La nozione di convivenza di fatto, intesa come un rapporto di fatto che si caratterizzi, oltre che per l’esistenza di una relazione affettiva consolidata, per la spontanea assunzione di diritti ed obblighi, tali da darle una stabilità assimilabile a quella coniugale, peraltro trova ora il suo supporto normativo nella L. n. 76 del 2016, che all’art. 1, definisce i conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco“.

Questo nuovo orientamento giurisprudenziale è destinato ad avere importanti ripercussioni sull’assegno divorzile percepito dall’ex coniuge che abbia instaurato una convivenza, benché senza coabitare stabilmente con il partner.

L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso (cfr. Cass. civ., Sez. I, 03 aprile 2015, n. 6855 – cassa e decide nel merito, App. Lecce, 13.07.2011 – conforme Cass. civ., Sez. VI – 1, ord. 8 febbraio 2016, n. 2466).

In applicazione di tale principio, la giurisprudenza di merito si è spinta oltre le statuizioni della Corte di Cassazione, escludendo il diritto all’assegno di divorzio anche nel caso in cui l’ex coniuge richiedente l’assegno non conviva con il nuovo compagno, quando comunque risulti da altre circostanze che il medesimo ha creato una famiglia di fatto con un’altra persona.

In tal senso si è espresso testualmente il Tribunale di Como con ordinanza del 12 aprile 2018: “La costituzione del nucleo familiare di fatto non è esclusa per il sol fatto che i due partner abbiano liberamente optato per soprassedere, al momento, dalla instaurazione di una stabile convivenza, il che del resto ben può avvenire anche per le coppie coniugate; anche in costanza di matrimonio, infatti, il dovere di coabitazione può essere derogato, per accordo tra i coniugi, nel superiore interesse della famiglia, per ragioni di lavoro, studio ecc.. sì da non escludere la comunione di vita interpersonale (cfr. Cass. 19439/11, 17537/03), e quindi non si vede perché non possa essere esercitabile detta facoltà anche da parte delle coppie non coniugate, unite affettivamente, e legate anche da reciproci diritti e doveri nei confronti della prole, le quali quindi ben possono essere intese come nucleo familiare di fatto o modello familiare atipico, anche in difetto di stabile coabitazione, ove il loro legame integri una comunione di vita interpersonale”.

Anche il Tribunale di Lecce – Seconda Sezione Civile, con provvedimento del 02 marzo 2020 (n. cronol. 1193/2020) ha revocato l’assegno divorzile previsto in favore della ex moglie in considerazione di due circostanze sopravvenute alla sentenza di divorzio: 1) la stabile relazione affettiva, vissuta e ostentata pubblicamente dalla signora con il proprio compagno, anche in presenza della figlia quattordicenne nata dal precedente matrimonio, benché i due partner non coabitassero sotto lo stesso tetto; 2) l’avvio di un’attività lavorativa da parte della ex moglie che le avrebbe consentito di provvedere in modo autonomo alle proprie esigenze di mantenimento.

Percorso di sostegno alla genitorialità in fase di separazione e divorzio. Il sì della Corte di Cassazione. Riflessioni a margine della sentenza della Corte di Cassazione del 06 maggio 2019 n. 11842.

L’invio della coppia in mediazione familiare come strumento di sostegno della genitorialità è una delle misure che ben può essere adottata dal Tribunale per salvaguardare il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

La corretta interpretazione della disposizione richiamata, infatti, impone agli Stati contraenti non solo di astenersi da ingerenze arbitrarie nella vita familiare (i c.d. obblighi negativi), ma anche di adottare i c.d. obblighi positivi, diretti ad assicurare l’effettivo rispetto della vita privata e familiare; obblighi che possono implicare la predisposizione di interventi che permettano il corretto mantenimento delle relazioni genitoriali e che non implicano esclusivamente che le autorità vigilino affinché il minore possa mantenere contatti con entrambi i genitori separati, comprendendo piuttosto tutte le misure propedeutiche al raggiungimento di questo risultato, fornendo risposte non deboli, tempestive ed adeguate al caso concreto. Per essere adeguate, le misure deputate a riavvicinare il genitore non collocatario con il figlio minore devono essere attuate rapidamente, perché il trascorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui. Non deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche. (vd. Corte Eur. Dir. Uomo, sez. II, sentenza 29 gennaio 2013 – causa Lombardo c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo,  sentenza 17 novembre 2015 – causa Bondavalli c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo sentenza 23 marzo 2016 – causa Strumia c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo sentenza 15 settembre 2016 – causa Giorgioni c. Italia).

A questa chiave di lettura, per così dire convenzionalmente orientata, anche ai sensi dell’art. 117 Cost. (che impone il rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) può essere ricondotta la recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 11842 del 02 aprile – 06 maggio 2019 in materia di separazione personale tra coniugi. La Suprema Corte ha confermato la decisione dei giudici di merito, i quali, per superare le difficoltà relazionali riscontrate nella coppia genitoriale in fase di separazione, avevano ritenuto opportuno che i genitori intraprendessero un percorso di mediazione familiare, disponendo testualmente che il consultorio “prenda in carico il nucleo familiare e predisponga un percorso di sostegno psicologico della minore e di supporto alla genitorialità di entrambe le parti“, e ciò a tutela del pieno interesse della minore. Tale decisione deve ritenersi compatibile con il rispetto dell’altrui diritto soggettivo genitoriale, in questa materia – chiarisce la Suprema Corte – subordinato al preminente interesse del minore che, nel caso di specie era a rischio di pregiudizio per l’elevata conflittualità genitoriale, sulla quale tuttavia era possibile incidere positivamente proprio mediante l’attivazione di un percorso di mediazione familiare a sostegno della genitorialità, al fine di prevenire ulteriori gravi danni al minore.

Naturalmente, il percorso di mediazione familiare è e rimane volontario; quindi anche quando la coppia arriva in mediazione su sollecitazione del Tribunale, è la coppia medesima, che dopo il primo incontro informativo con il mediatore, ha facoltà di decidere se intraprendere e/o proseguire il percorso mediativo e, dunque, di decidere liberamente e responsabilmente se darsi o meno l’opportunità di vivere e gestire la separazione con consapevolezza e maturità, soprattutto nell’interesse dei figli.

Il mediatore familiare è un “traghettatore” della comunicazione, come lo definisce icasticamente il prof. Vittorio Cigoli, una guida che orienta le parti a trovare da sé soluzioni condivise, sviluppando e valorizzando la loro autonomia decisionale e negoziale. Ruolo del mediatore è “stare nel mezzo” per motivare e spronare senza manipolare. Il mediatore familiare non difende e non rappresenta nessuno dei due componenti della coppia che sono posti su un piano di assoluta parità tra loro; è un terzo imparziale, che in un contesto neutrale e confidenziale, in assoluta autonomia dall’ambito giudiziario e nella garanzia del segreto professionale, li aiuta a riorganizzare la propria vita dopo la separazione senza delegare a terzi le proprie scelte in ordine a tutti gli aspetti, relazionali e patrimoniali della separazione nonché inerenti alla cura ed all’educazione dei figli. Tanto, sul presupposto che anche dopo la separazione si rimane genitori sempre, non vi siano un perdente ed un vincitore, ma entrambi i genitori ne escano vincenti insieme. Il mediatore non giudica, non dà consigli, non suggerisce soluzioni, aiuta i mediandi a trovare essi medesimi le soluzioni più atte a soddisfare le esigenze di tutti i componenti della famiglia, compresi i figli, nella diversa dimensione di genitori separati.

Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione precisa, altresì, che irrilevante e inconferente è il richiamo, operato daI ricorrente, ad una precedente pronuncia della stessa Corte di Cassazione, la sentenza n. 13506 del 05 marzo – 11 luglio 2015, laddove riteneva contraria e lesiva del diritto alla libertà personale costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta l’imposizione, se non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari obbligatori (art. 32 Cost.), la decisione dei giudici di merito che aveva prescritto ai genitori di sottoporsi ad un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia.

In quel caso, la coppia aveva già intrapreso un percorso di mediazione familiare, tuttavia, fallito a causa della condizione di immaturità della coppia genitoriale, rilevata in sede di CTU, che impediva il reciproco rispetto dei rispettivi ruoli stante l’elevato livello di conflitto personale. Pertanto, mentre il percorso di sostegno alla genitorialità che può essere realizzato attraverso un percorso di mediazione familiare è funzionale a garantire la centralità del minore nella vicenda separativa e  la tutela del suo diritto a mantenere rapporti equilibrati e continuativi con entrambi i genitori ancorché separati, il percorso psico-terapeutico, pur se in ultima analisi funzionale a garantire il benessere psico-fisico del minore, ha una finalità che esula dai poteri del giudice ed è estranea al giudizio, ossia quella di realizzare una maturazione personale dei genitori che deve rimanere affidata al loro diritto di autodeterminazione.

Il mediatore familiare, del resto, non svolge sedute di terapia di coppia, in quanto non ha come obiettivo il mantenimento o la ricostituzione del legame coniugale o di fatto, ma quello di garantire la continuità della funzione genitoriale in presenza di una volontà di separazione/divorzio espressa dalla coppia stessa.

L’Avv. Emanuela Palamà su Radio Manbassa, puntata del 19.05.2019

L’Avv. Emanuela Palama’, intervistata dallo speaker Ronny Trio di Radio Manbassa, in questa puntata ha parlato della sorte della casa coniugale in caso di separazione e delle recenti novità in tema di assegno divorzile.

L’Avv. Emanuela Palamà su Radio Manbassa, puntata del 14.04.2019

L’Avv. Emanuela Palama’, intervistata dallo speaker Ronny Trio di Radio Manbassa, in questa puntata ha parlato di come gestire i periodi di vacanza con i figli minori (estate, Natale, Pasqua, ecc..); da quale età è consentito il pernotto del figlio minore presso il genitore non convivente; spese ordinarie e straordinarie per i figli.

Revoca dell’assegnazione della casa coniugale.

IN ASSENZA DI FIGLI VA REVOCATA L’ASSEGNAZIONE ALLA MOGLIE DELLA CASA CONIUGALE DI PROPRIETÀ DI ENTRAMBI I CONIUGI, SE NELL’ACCORDO DI SEPARAZIONE IL PERIODO DI GODIMENTO DELL’ABITAZIONE È STATO LEGATO ALLA QUANTIFICAZIONE DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO (CASS. ORDINANZA N. 7939 DEL 20 MARZO 2019).

IL CASO: Un uomo adiva il Tribunale di Novara per chiedere, unitamente alla pronuncia della sentenza di divorzio, la revoca del godimento della casa coniugale assegnata alla moglie, in assenza di figli, in conformità all’accordo di separazione precedentemente raggiunto tra i coniugi. Tale accordo, in particolare, aveva creato un legame tra l’utilizzo della casa familiare e la quantificazione dell’assegno di mantenimento alla moglie, assegno che, difatti, veniva determinato consensualmente nella somma di euro 1.250,00 fino al momento della vendita dell’abitazione e, dopo tale evento, aumentato ad euro 2.000,00, comunque per la durata di tre anni. Sulla base di tale accordo, dunque, il giudice del divorzio revocava l’assegnazione della casa coniugale alla moglie, ritenendo non sussistenti i presupposti di legge per la conferma, in sede di divorzio, della sua assegnazione in assenza di figli.
La moglie impugnava la sentenza del Tribunale innanzi alla Corte d’Appello di Torino, chiedendo l’accertamento dell’inammissibilità della pronuncia di revoca dell’assegnazione della casa coniugale. La Corte tuttavia respingeva l’impugnazione proposta e confermava la sentenza di primo grado, osservando che l’accordo di separazione tra i due coniugi avesse unito la quantificazione del mantenimento della moglie all’utilizzazione della casa, trovando dunque causa nella separazione prima e nel divorzio poi, essendo diretto ad assolvere i doveri di solidarietà coniugale per il tempo immediatamente successivo alla cessazione della convivenza.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE: La signora promuoveva ricorso per cassazione lamentando che la sentenza impugnata avesse erroneamente negato la natura meramente negoziale, occasionata dalla separazione ma non causata da quest’ultima, della concessione in godimento dell’abitazione in comproprietà tra le parti, affermando l’esistenza di un nesso tra l’uso dell’immobile e la quantificazione dell’assegno di mantenimento. La Corte di Cassazione respingeva le doglianze della ricorrente, ritenendo che la Corte d’Appello avesse correttamente interpretato l’accordo di separazione tra i coniugi e, dunque, rigettava il ricorso.
Tale pronuncia si segnala, da un lato, perché riconduce la clausola del godimento della casa familiare al contenuto necessario dell’accordo di separazione tra i coniugi e, dall’altro, perché conferma la previsione anche in sede di divorzio di un assegno di mantenimento “a tempo” (per la durata complessiva di 36 mesi dalla cessazione del godimento dell’abitazione), al fine di evitare, evidentemente, rendite parassitarie a danno dell’ex coniuge obbligato e a favore di quello beneficiario.

L’Avv. Emanuela Palamà su Radio Manbassa, puntata del 24.03.2019

L’Avv. Emanuela Palama’, intervistata dallo speaker Ronny Trio di Radio Manbassa, ha parlato di affidamento e collocamento dei figli minori in caso di separazione; come informare i figli della decisione di separasi; del diritto “di visita” dei nonni verso i nipoti.

Mediazione Familiare: l’inizio del mio viaggio alla scoperta di un nuovo mondo.

Perchè credo nella Mediazione Familiare

Sono un avvocato e mi occupo della tutela dei diritti delle persone, delle famiglie e dei minori.
Ho amato questa branca del diritto sin dai tempi universitari, tanto da aver scelto come argomento di discussione della mia tesi di laurea quello sulle coppie di fatto.
Ho sempre avuto una spiccata sensibilità e nutrito profondo interesse per le vicende umane, in particolare per quelle che conseguono alla disgregazione dell’unità familiare, dove fanno da padrone, assai spesso, il dolore, la sofferenza, la rabbia, il senso di fallimento e di frustrazione di uno o di entrambi i componenti della coppia che si separa.
Nell’esercizio della mia attività professionale mi adopero per tutelare al meglio la posizione del mio cliente, senza dimenticare, tuttavia, che i figli della coppia, soprattutto se minori, pur non essendo attori in prima persona della vicenda separativa dei propri genitori, ne subiscono inesorabilmente gli effetti, senza avere, peraltro, la possibilità di far conoscere i propri sentimenti e bisogni, i propri desiderata ed emozioni.
E’ vero che oggi, a seguito della riforma della filiazione introdotta nel tessuto normativo del codice civile dalla L. n. 219/2012 e dal successivo D.Lgs. n. 154/2013, è stato espressamente riconosciuto al figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore se capace di discernimento, il diritto di essere ascoltato in tutte le questioni che lo riguardano, ma l’ascolto di cui ha vero bisogno il minore è, soprattutto, quello dei propri genitori, che invece, il più delle volte, rimangono sordi alle sue istanze, concentrati e ripiegati come sono su se stessi e sulle proprie emozioni negative legate al momento della crisi e della separazione.
La condizione più dolorosa per un figlio è quella di sentirsi conteso tra genitori in guerra, di non sentirsi accolto né ascoltato ma strumentalizzato per i fini egoistici dei propri genitori, accecati dalla rabbia e dall’astio reciproco.
In casi siffatti, accade, purtroppo di frequente, che un genitore cerchi, e costruisca un vero e proprio rapporto di alleanza col figlio, “tirandolo” dalla sua parte, mettendo in atto su di lui una subdola opera di condizionamento psichico o di vera e propria manipolazione psicologica, tesa alla denigrazione dell’altro genitore ed al conseguente allontanamento del figlio, che può arrivare fino al vero e proprio rifiuto indotto del genitore alienato e della rete parentale ad esso legata (nonni, zii, cugini, ecc.): tutto ciò, ancora una volta, a discapito del superiore diritto del minore a ricevere sia dalla mamma che dal papà, non solo il mantenimento economico, ma anche e soprattutto l’affetto, l’educazione, l’istruzione e tutte le cure necessarie a preservare e consolidare il suo legame affettivo con ciascun genitore, a garantirne una sana ed equilibrata crescita psico-fisica, mantenendo rapporti continuativi anche con i nonni e con tutti i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Devo ammettere che, da avvocato, ho provato più volte un senso di insoddisfazione, poiché nonostante tutti gli sforzi profusi ed i risultati raggiunti nell’interesse del cliente, ho potuto constatare quanta amarezza, indecisione, vulnerabilità affettiva ed emotiva accompagnino quasi sempre la coppia che si separa, senza, in ogni caso, poter offrire soltanto con il diritto una adeguata e soddisfacente risposta ai problemi relazionali che ne conseguono.
Ed anche nei casi in cui sono riuscita ad evitare un contenzioso, assistendo uno o entrambi i coniugi nel raggiungimento di un accordo sulle condizioni della separazione o del divorzio, ho constatato come quasi sempre siano rimasti irrisolti gli aspetti connessi alla capacità delle parti di relazionarsi adeguatamente e/o nel rispetto delle reciproche esigenze; anzi, la concreta difficoltà nel gestire i rapporti tra di essi e/o con i propri figli, pur a seguito di una separazione consensuale o di un divorzio non contenzioso, diviene talvolta fonte di nuove tensioni e di nuove liti.
Sulla base della mia esperienza professionale, ho maturato il convincimento che gli operatori del diritto, siano essi avvocati e/o magistrati, per quanto sensibili e portatori di grandi doti umane, non hanno né gli strumenti né le abilità proprie del professionista della relazione d’aiuto, necessarie per “accompagnare” la coppia nel “sostare” nel conflitto, per gestirlo e superarlo in modo costruttivo, soprattutto nell’interesse dei figli.
Le fredde aule dei tribunali non sono il luogo più adatto per accogliere i sentimenti e le emozioni, nel mentre le coppie che si separano disvelano chiaramente il bisogno di sentirsi accolte e comprese nel loro dolore, nella loro sofferenza, nel senso di frustrazione, di smarrimento e di fallimento che provano per essere giunti, loro malgrado, all’epilogo della propria storia d’amore.
Un amico, che chiameremo Alessandro, separato dalla moglie da circa sei anni con due figli, parlandomi della sua vicenda mi ha detto: “Il giorno della mia separazione è stato per me quello più triste. E’ stata una separazione consensuale, ma mi ha fatto male constatare che il mio matrimonio durato circa dieci anni ed allietato dalla nascita di due splendidi figli, e che, sia pure con alti e bassi, ha visto momenti felici, si sia ridotto, al momento della separazione, ad una questione meramente economica … ho provato tanta tristezza… Ho dovuto accettare le condizioni imposte da mia moglie, poiché era ferma sulle sue posizioni e non mi ha lasciato altra scelta, interessata com’era solo a spillarmi quanti più denari possibile … Oggi i nostri rapporti sono freddi; pensa che io non sia un buon padre, eppure i miei figli mi adorano; non riusciamo a parlarci; comunichiamo tramite sms, perfino la separazione è avvenuta tramite sms … eppure ci sono due figli … ”.
La storia di Alessandro è una delle tante vicende che vivono molte coppie che si separano, in realtà solo apparentemente in modo consensuale, poiché alla fine di accordi davvero condivisi e mutuamente accettati vi è ben poco se non proprio nulla.
Forse, se Alessandro e la moglie si fossero rivolti ad un mediatore familiare ed avessero intrapreso il percorso mediativo, i loro rapporti oggi sarebbero diversi ed anche i loro figli sarebbero più sereni.
Mi piace pensare plasticamente alla mediazione familiare come ad un quadro tridimensionale, o meglio ad uno stereogramma, che disvela le figure o le immagini in esso contenute solo agli occhi dell’attento osservatore che non si limita a guardare la superficie del disegno, ma spinge lo sguardo in avanti fino a che non scorge ciò che esso “nasconde” in profondità. Quando ci si predispone ad osservare uno stereogramma, e ci si perde nell’immagine che si ha di fronte, avviene il massimo del rilassamento fisico e una grande soddisfazione psichica.
E’ ciò che accade, in qualche modo, durante il percorso di mediazione familiare, in cui il mediatore aiuta le parti a spingersi al di là delle rispettive e spesso contrapposte posizioni, alla “scoperta” del proprio vissuto personale e di coppia, ma anche dei disagi e delle incomprensioni reciproche, per capirne i bisogni e individuare gli interessi comuni; ciascuno dei mediati, in tal modo, attraverso la sapiente guida del mediatore familiare – professionista qualificato terzo, imparziale ed in posizione neutrale -, impara, per usare le parole di Maria Martello (nota mediatrice familiare), “a «sostare» nei conflitti, a comprendere l’altro senza sovrastarlo, un modo nuovo di ascoltarlo” .
Ma la straordinarietà del percorso mediativo si è rivelata ai miei occhi nel momento in cui, animata dalla voglia di esplorare più approfonditamente il mondo della mediazione familiare e di comprenderne meglio i contenuti e le modalità operative, ho deciso di formarmi io stessa come mediatrice familiare per acquisire nuove competenze: accogliere l’alterità, comprendere ciò che sente e caratterizza l’altro, ascoltarlo e comprenderne i bisogni, creare fiducia ed empatia, trovare il giusto equilibrio nelle situazioni per gestire le emozioni ed apprendere “l’arte di mediare”, competenze tutte maturate anche attraverso un processo di introspezione personale sollecitato dal percorso formativo intrapreso, nella ferma convinzione che non si può assumere il ruolo professionale del mediatore familiare senza fare della mediazione, e di tutto ciò che essa comporta, il proprio modo di vivere e di essere.
Sotto il profilo strettamente professionale sono rimasta entusiasticamente affascinata dal modo in cui la coppia, nel setting di mediazione, riesce a ripristinare il dialogo interrotto, potenzia le proprie capacità e competenze negoziali, riconosce l’altro come proprio interlocutore e negoziatore, si predispone all’ascolto ed alla profonda comprensione dei bisogni dell’altro, ridefinisce le proprie posizioni spostando l’attenzione sugli interessi comuni, rispetto ai quali condividere le soluzioni più soddisfacenti, e mutuamente accettate, per una gestione non conflittuale della propria separazione, vissuta non più in senso negativo come momento patologico della propria unione, ma come una fase di transizione verso il cambiamento, come opportunità di miglioramento, al fine di riuscire a riorganizzare in modo condiviso la propria quotidianità dopo l’evento separativo, in una logica reciprocamente vincente, “win to win”, e non conflittuale ed agonistica, “lose to win”. Uscirne vincenti insieme significa essere capaci di creare e mantenere un’alleanza, una complicità sul piano genitoriale pur dopo la separazione; significa aver responsabilmente scelto di garantire ai propri figli rapporti affettivi stabili e continuativi sia con la mamma che con il papà, anche se separati.
Ed ecco che al termine della prima tappa del mio viaggio nel mondo della mediazione familiare, da attenta osservatrice, mi sento oggi parte integrante di quel quadro tridimensionale, immersa in quello straordinario scenario che si apre alla coppia, nel quale, mutuando le parole di Jacqueline Morineau, “è possibile esprimere le nostre differenze e riconoscere quelle degli altri … nel quale si scopre che i nostri conflitti non sono necessariamente distruttivi, ma possono essere anche generatori di un nuovo rapporto”.