Genitore percettore di reddito di cittadinanza e inadempiente all’obbligo di mantenimento del figlio? Il Tribunale può ordinare al terzo il versamento diretto dell’assegno mensile e disporre anche il sequestro di immobile, ai sensi dell’art 156, c.6, c.c. (Ordinanza del Tribunale di Lecce – Seconda Sezione Civile, 28 marzo 2022, Presidente est. Dr.ssa Annafrancesca Capone)
IL CASO: Con sentenza di separazione tra i coniugi, il Tribunale di Lecce aveva posto a carico del padre l’obbligo di contribuire al mantenimento della figlia convivente con la madre, mediante versamento in favore di quest’ultima dell’importo di € 150 mensili, oltre che di concorrere alla metà delle spese straordinarie.
Il padre si era reso totalmente inadempiente a tale obbligo, nonostante fosse stato più volte diffidato a provvedervi, dapprima mediante la notifica di un atto di precetto, poi con raccomandata a.r. di formale messa in mora per il pagamento degli ulteriori ratei di mantenimento nel frattempo maturati e non versati.
Perdurando l’inadempimento ed in difetto di assoluto riscontro da parte del genitore obbligato, la madre ha richiesto al Tribunale adito, ai sensi dell’art. 156, c. 6, c.c., di ordinare all’INPS – quale Ente tenuto all’erogazione del reddito di cittadinanza in favore del padre – di versare direttamente in suo favore l’importo dovuto come contributo mensile al mantenimento della figlia, nonché di autorizzare il sequestro della piena proprietà di un immobile del medesimo genitore obbligato, sino alla concorrenza della somma ritenuta di giustizia.
LA DECISIONE: Il Tribunale, con la decisione in commento, accoglie integralmente il ricorso proposto dalla madre, muovendo dalle seguenti considerazioni: si tratta, innanzitutto, di verificare se l’ordine al terzo sia strumento utilizzabile in caso di percezione da parte dell’obbligato del reddito di cittadinanza e se vi siano i presupposti per il sequestro di cui all’art. 156, c. 6 c.c..
“Con riferimento al primo punto, ritiene il Collegio di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il reddito di cittadinanza, in quanto sprovvisto di natura alimentare ed avente carattere di misura di politica attiva dell’occupazione, può essere attinto da un ordine di pagamento diretto per tutelare i bisogni primari dei figli”. In senso conforme, si confronti la decisione del Tribunale di Trani del 30.01.2020.
Peraltro, secondo l’orientamento della Suprema Corte, la facoltà del Tribunale di ordinare che una quota dei redditi di lavoro del coniuge obbligato venga versata direttamente all’avente diritto non è soggetta alle limitazioni riguardanti la pignorabilità degli stipendi, specie in tema di contributo al mantenimento dei figli, stante la sua funzione alimentare (Cass. n. 2847/78; Cass. n. 15374/07; Trib. Roma, 3.06.2009).
Va aggiunto, altresì, che l’ordine di pagamento diretto può essere emesso per l’intera somma dovuta dal terzo quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente l’assetto economico determinato in sede di separazione con la statuizione che, in concreto, ha quantificato il diritto del coniuge a percepire l’assegno di mantenimento per il figlio.
E’ pacifica, poi, l’applicazione estensiva dello strumento dell’ordine del terzo previsto dall’art. 156, c. 6, c.c. per l’ottenimento, in difetto di spontaneo pagamento, delle somme dovute da un coniuge all’altro a titolo di assegno di mantenimento della prole (cfr. Cass. civ. Sez. I, 04-12-1996, n. 10813).
Quanto al secondo punto, il Tribunale di Lecce con l’ordinanza in commento ha precisato che “la totale inadempienza del resistente e la precarietà del reddito dallo stesso percepito giustificano il sequestro di cui all’art. 156, c. 6 c.c., sussistendo il rischio che l’obbligo di mantenimento resti inadempiuto (almeno in parte) anche in futuro. Peraltro, è pacifico che l’ordine al terzo ed il sequestro dei beni del coniuge possono essere concessi contemporaneamente (Cass., n. 9671/2013). Sull’importo del sequestro, tenuto conto della prevedibile durata dell’assegno (considerato fino a 28 anni di età della figlia, visto che la stessa frequenta l’Università) e tenuto anche conto che – oltre all’assegno ordinario – vanno considerate le spese straordinarie, appare opportuno stabilirlo in € 15.000,00”.
Alla luce di tali argomentazioni, il Tribunale, in accoglimento del ricorso proposto dalla madre, ha ordinato all’INPS di versare direttamente in favore di essa la somma di € 150,00 al mese, decurtandola dagli emolumenti corrisposti al padre quale reddito di cittadinanza ed ha autorizzato altresì il sequestro dell’immobile di sua proprietà, ai sensi dell’art. 156, c. 6, c.c., fino alla concorrenza di € 15.000,00 con condanna del resistente al pagamento delle spese e competenze legali del giudizio.
L’invio della coppia in mediazione
familiare come strumento di sostegno della genitorialità è una delle misure che ben può essere
adottata dal Tribunale per salvaguardare il diritto al rispetto della vita privata e familiaredi cui all’art. 8 della Convenzione Europea
dei Diritti dell’Uomo.
La corretta interpretazione della disposizione richiamata, infatti, impone agli Stati contraenti non solo di astenersi da ingerenze arbitrarie nella vita familiare (i c.d. obblighi negativi), ma anche di adottare i c.d. obblighi positivi, diretti ad assicurare l’effettivo rispetto della vita privata e familiare; obblighi che possono implicare la predisposizione di interventi che permettano il corretto mantenimento delle relazioni genitoriali e che non implicano esclusivamente che le autorità vigilino affinché il minore possa mantenere contatti con entrambi i genitori separati, comprendendo piuttosto tutte le misure propedeutiche al raggiungimento di questo risultato, fornendo risposte non deboli, tempestive ed adeguate al caso concreto. Per essere adeguate, le misure deputate a riavvicinare il genitore non collocatario con il figlio minore devono essere attuate rapidamente, perché il trascorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui. Non deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche. (vd. Corte Eur. Dir. Uomo, sez. II, sentenza 29 gennaio 2013 – causa Lombardo c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo, sentenza 17 novembre 2015 – causa Bondavalli c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo sentenza 23 marzo 2016 – causa Strumia c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo sentenza 15 settembre 2016 – causa Giorgioni c. Italia).
A questa chiave di lettura, per così dire convenzionalmente orientata, anche ai sensi dell’art. 117 Cost. (che impone il rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) può essere ricondotta la recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 11842 del 02 aprile – 06 maggio 2019 in materia di separazione personale tra coniugi. La Suprema Corte ha confermato la decisione dei giudici di merito, i quali, per superare le difficoltà relazionali riscontrate nella coppia genitoriale in fase di separazione, avevano ritenuto opportuno che i genitori intraprendessero un percorso di mediazione familiare, disponendo testualmente che il consultorio “prenda in carico il nucleo familiare e predisponga un percorso di sostegno psicologico della minore e di supporto alla genitorialità di entrambe le parti“, e ciò a tutela del pieno interesse della minore. Tale decisione deve ritenersi compatibile con il rispetto dell’altrui diritto soggettivo genitoriale, in questa materia – chiarisce la Suprema Corte – subordinato al preminente interesse del minore che, nel caso di specie era a rischio di pregiudizio per l’elevata conflittualità genitoriale, sulla quale tuttavia era possibile incidere positivamente proprio mediante l’attivazione di un percorso di mediazione familiare a sostegno della genitorialità, al fine di prevenire ulteriori gravi danni al minore.
Naturalmente,
il percorso di mediazione familiare è e rimane volontario; quindi anche quando la
coppia arriva in mediazione su sollecitazione del Tribunale, è la coppia
medesima, che dopo il primo incontro informativo con il mediatore, ha facoltà
di decidere se intraprendere e/o proseguire il percorso mediativo e, dunque, di
decidere liberamente e responsabilmente se darsi o meno l’opportunità di vivere
e gestire la separazione con consapevolezza e maturità, soprattutto nell’interesse
dei figli.
Il mediatore familiare è un “traghettatore” della comunicazione, come lo definisce icasticamente il prof. Vittorio Cigoli, una guida che orienta le parti a trovare da sé soluzioni condivise, sviluppando e valorizzando la loro autonomia decisionale e negoziale. Ruolo del mediatore è “stare nel mezzo” per motivare e spronare senza manipolare. Il mediatore familiare non difende e non rappresenta nessuno dei due componenti della coppia che sono posti su un piano di assoluta parità tra loro; è un terzo imparziale, che in un contesto neutrale e confidenziale, in assoluta autonomia dall’ambito giudiziario e nella garanzia del segreto professionale, li aiuta a riorganizzare la propria vita dopo la separazione senza delegare a terzi le proprie scelte in ordine a tutti gli aspetti, relazionali e patrimoniali della separazione nonché inerenti alla cura ed all’educazione dei figli. Tanto, sul presupposto che anche dopo la separazione si rimane genitori sempre, non vi siano un perdente ed un vincitore, ma entrambi i genitori ne escano vincenti insieme. Il mediatore non giudica, non dà consigli, non suggerisce soluzioni, aiuta i mediandi a trovare essi medesimi le soluzioni più atte a soddisfare le esigenze di tutti i componenti della famiglia, compresi i figli, nella diversa dimensione di genitori separati.
Nella
sentenza in commento la Corte di Cassazione precisa, altresì, che irrilevante e
inconferente è il richiamo, operato daI ricorrente, ad una precedente pronuncia
della stessa Corte di Cassazione, la sentenza n. 13506 del 05 marzo – 11 luglio
2015, laddove riteneva contraria e lesiva del diritto alla libertà personale
costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta l’imposizione, se
non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari obbligatori (art. 32
Cost.), la decisione dei giudici di merito che aveva prescritto ai genitori di
sottoporsi ad un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia.
In
quel caso, la coppia aveva già intrapreso un percorso di mediazione familiare,
tuttavia, fallito a causa della condizione di immaturità della coppia
genitoriale, rilevata in sede di CTU, che impediva il reciproco rispetto dei
rispettivi ruoli stante l’elevato livello di conflitto personale. Pertanto,
mentre il percorso di sostegno alla genitorialità che può essere realizzato
attraverso un percorso di mediazione familiare è funzionale a garantire la
centralità del minore nella vicenda separativa e la tutela del suo diritto a mantenere rapporti
equilibrati e continuativi con entrambi i genitori ancorché separati, il
percorso psico-terapeutico, pur se in ultima analisi funzionale a garantire il
benessere psico-fisico del minore, ha una finalità che esula dai poteri del
giudice ed è estranea al giudizio, ossia quella di realizzare una maturazione
personale dei genitori che deve rimanere affidata al loro diritto di
autodeterminazione.
Il mediatore familiare, del resto, non svolge sedute di terapia di coppia, in quanto non ha come obiettivo il mantenimento o la ricostituzione del legame coniugale o di fatto, ma quello di garantire la continuità della funzione genitoriale in presenza di una volontà di separazione/divorzio espressa dalla coppia stessa.
“Procreazione cosciente e responsabile tra disponibilità del diritto all’aborto e tutela del diritto alla vita del nascituro”: delicata problematica che attiene alla individuazione dei confini entro, o meglio dire, oltre i quali l’autonomia privata può spingersi fino a determinare le sorti della vita di colui qui in utero est e, dunque, di un altro soggetto che, ancorché concepito, non è ancora nato.
La questione induce, in
limine, ad indagare sulla qualità da attribuire al concepito nella sua dimensione
rigorosamente giuridica, attraverso un’analisi scevra da suggestioni o da
convinzioni di tipo morale, bioetico o filosofico, al fine di poterne affermare
la natura di “soggetto di diritto” ovvero di “oggetto di tutela” sino al
momento della nascita.
Se, infatti, il codice civile riconosce la rilevanza della
persona fisica all’atto della nascita – l’art. 1 c.c. stabilisce che la
capacità giuridica si acquista dal momento della nascita -, nondimeno contempla
la possibilità che il concepito, o addirittura colui che sarà concepito da
persona vivente, sia destinatario di disposizioni patrimoniali, mortis causa (art. 462 c.c.) o inter vivos (art. 784 c.c.). Ai sensi del secondo
comma dell’art. 1 del codice civile, la titolarità dei diritti riconosciuti a
colui quiin utero est è subordinata all’evento nascita.
Non può revocarsi in dubbio che la vita umana sia un diritto
indisponibile.
Tuttavia, se questa fosse l’affermazione di un principio
assoluto ed inderogabile, rispetto al quale misurare la liceità dell’atto
dispositivo della gestante implicante la soppressione del feto, si dovrebbe
concludere per l’assoluta illegittimità della procedura finalizzata alla
interruzione volontaria della gravidanza.
Ed allora, occorre interrogarsi sulla ratio della Legge 22.05.1978, n. 194,
rubricata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione
volontaria della gravidanza”.
L’incipit della
L. n. 194/1978 individua i beni giuridici presidiati dallo Stato, il quale, ai
sensi dell’art. 1, “garantisce il diritto alla procreazione cosciente e
responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita
umana dal suo inizio”.
Tuttavia, pur salvaguardando la vita umana dal suo concepimento,
il diritto alla vita di colui qui
in utero est non gode di
tutela assoluta ed incondizionata, poiché tale diritto è destinato a soccombere
nel bilanciamento con il confliggente diritto alla salute fisica o psichica
della gestante.
Quindi, nel contemperamento tra il valore della vita e della
salute della donna, da un lato, e la tutela del concepito, dall’altro, la legge
ammette il sacrificio della vita del concepito, consentendo alla madre – in
presenza delle condizioni previste – di autodeterminarsi circa l’evento nascita
e di interrompere la gravidanza.
La gestante, naturalmente, non può ricorrere all’intervento
abortivo ad libitum, bensì
solo in presenza di alcuni presupposti, indicati negli artt. 4 e 6, tali da
esporre la sua salute fisica o psichica ad un pericolo serio, nei primi novanta
giorni, o grave, successivamente. Ed invero, ai sensi del secondo comma
dell’art. 1, l’interruzione volontaria della gravidanza non costituisce mezzo
per il controllo delle nascite e l’eventuale pratica abortiva, posta in essere
in difetto dei presupposti di legge, configurerebbe condotta antigiuridica,
sanzionata dal successivo art. 19.
La legge 194/1978 modula diversamente il diritto di abortire
della donna a seconda che il medesimo venga esercitato nei primi novanta giorni
dal concepimento o successivamente.
Nel primo caso, ai sensi dell’art. 4, la gestante può decidere
di porre fine alla gravidanza ove accusi circostanze per le quali la
prosecuzione della stessa, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per le sue condizioni
fisiche o psichiche, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni
economiche, sociali e familiari, ovvero alle circostanze in cui è avvenuto il
concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. E’
evidente che il contemperamento tra l’interesse della donna ad autodeterminarsi
in ordine alla possibilità di continuare la gravidanza e quello del concepito
alla nascita è risolto in favore della prima.
Nel caso in cui siano trascorsi novanta giorni, la legge prevede
condizioni nettamente più restrittive alla libertà decisionale della gestante:
ai sensi dell’art. 6, infatti, l’esercizio del diritto all’interruzione
volontaria della gravidanza è subordinato alla ricorrenza di un grave pericolo per la salute della donna,
derivante dalla gravidanza o dal parto, o da processi patologici accertati, tra
i quali quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni nel feto, salvo,
in tale ultima evenienza, il caso in cui si riscontri la possibilità di una
vita autonoma dello stesso, circostanza che preclude la facoltà della donna di
abortire. In siffatta ipotesi, ai sensi dell’art. 7, comma 3, l’aborto non può
essere praticato se non quando la gravidanza ed il parto comportino un grave
pericolo di vita per la donna e previa adozione di ogni misura idonea a
salvaguardare la vita del feto. Dunque, quando siano trascorsi novanta giorni,
la tutela del concepito giunge ad uno stadio ulteriore, al punto che può
prevalere rispetto alla volontà della madre di non proseguire la gestazione:
l’esistenza di malformazioni nel feto non è di per sé motivo legittimante
l’interruzione della gravidanza, essendo questa correlata al presupposto del
grave pericolo per la vita della donna.
L’interesse salvaguardato in via
primaria dalla Legge n. 194/1978 è, dunque, il diritto di ogni donna ad una
procreazione cosciente e responsabile, che assurge a valore
inviolabile della libertà personale, presidiato dall’art. 13 della
Costituzione. Rientra, dunque, tra le estrinsecazioni del diritto protetto
dalla L. n. 194/1978 la prerogativa di scegliere il momento più opportuno per
far nascere un figlio, per farlo crescere in un ambiente familiare armonioso e
sereno ed in un contesto economico stabile o quantomeno non precario. Il
diritto ad una procreazione cosciente e responsabile trova fondamento nella “Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”
(firmata a Roma il 4 novembre 1950), che all’art. 12 riconosce il diritto di
ogni persona di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano
l’esercizio di tale diritto, nonché, all’art. 8, il diritto al rispetto della
propria vita privata e familiare. In proposito, la Corte europea con sentenza
del 26.05.2011, n. 27617/04 ha precisato che “la nozione di vita privata è un
concetto ampio che include il diritto di ogni individuo di avere autonomia
personale e scegliere come sviluppare la propria identità. In questa nozione è
incluso il diritto di ogni individuo «di avere o non avere un bambino o di
diventare genitore»”. Il diritto di ogni individuo al rispetto della propria
vita privata e familiare, nonché di sposarsi e di costituire una famiglia sono,
altresì, riconosciuti ed affermati dalla “Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea” del 7 dicembre 2000, rispettivamente agli artt. 7 e 9.
Naturalmente, anche la tutela del concepito ha fondamento
costituzionale: nell’art. 31, comma 2, Costituzione, che impone espressamente
la protezione della maternità e, più in generale, nell’art. 2, che riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi,
sia pure con particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica
del concepito. In tal senso, si è espressa la Corte
Costituzionale con la sentenza del 18 febbraio 1975, n. 27, che ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 546 c.p. (aborto di donna
consenziente) nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere
interrotta quando la sua prosecuzione implicasse danno o pericolo grave,
medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.
L’iter logico-argomentativo di questa pronuncia della Consulta trae fondamento
dalla considerazione della non equivalenza fra il diritto, non solo alla vita
ma anche alla salute proprio di chi già è persona, come la madre, e la salvaguardia
dell’embrione che persona deve ancora diventare.
Si ripropone nuovamente la questione, prospettata all’inizio del
mio intervento, sulla natura giuridica del concepito, ossia se questi va
ragguardato quale “soggetto di diritto” o piuttosto come “oggetto di tutela”
sino al momento della nascita, onde poter individuare i diritti azionabili dal
nascituro, una volta nato, in particolare nell’ipotesi in cui la madre non
abbia esercitato il diritto di interrompere la gravidanza, pur ricorrendo le
condizioni normativamente previste, ed il concepito sia nato, quindi,
malformato.
Naturalmente, ai fini di un esercizio consapevole del diritto
alla procreazione responsabile è necessario che la gestante sia informata di
ogni circostanza che possa influire sulla sua decisione di interrompere o
proseguire la gravidanza, come nel caso in cui il quadro diagnostico evidenzi
la sussistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro.
Se è vero, infatti, che la scelta tra interrompere o proseguire
la gravidanza in presenza di un’accertata malformazione fetale è un fatto
volitivo, fortemente condizionato da valori etici, religiosi, culturali che
appartengono alla sfera più intima della persona, in forza dei quali la
gestante potrebbe operare una scelta diversa da quella abortiva, è, altresì
vero, che la futura madre, posta di fronte alla prospettiva di dover prestare
assistenza ad un figlio menomato, di dover sacrificare tempo, energie ed
attenzioni ulteriori rispetto a quelli richiesti da un bambino sano, di dover sopperire
alle ingenti spese di cura e di assistenza, opti per l’interruzione della
gravidanza, al fine di non compromettere la sua esistenza, nella duplice
dimensione individuale e di coppia, e quella del concepito.
La prospettiva di dover stravolgere completamente il programma
della propria vita familiare alla nascita di un bimbo malformato, può generare,
invero, un sentimento di rifiuto di una realtà non voluta, non desiderata e non
accettata, che può tradursi verosimilmente nel pericolo di insorgenza di una
sindrome depressiva della gestante, tale da giustificare la sua scelta di
interrompere la gravidanza.
Il quesito che ci poniamo allora è: esiste un diritto del
nascituro a non nascere se non sano? O, piuttosto, il diritto del nascituro a
nascere sano? Il nascituro è un soggetto di diritto?
Per rispondere a tali quesiti, ritengo utile ed opportuno
richiamare il caso scrutinato dagli Ermellini, Terza Sezione Civile, con la
sentenza n. 16754 del 2 ottobre 2012[2]:
la gestante aveva espressamente manifestato al ginecologo la propria volontà di
sottoporsi a tutti gli esami necessari per accertare l’eventuale presenza di
malformazioni fetali, da cui avrebbe fatto dipendere la propria decisione di
interrompere la gravidanza. Il ginecologo aveva sottoposto la gestante al
Tritest, senza informarla della debolezza statistica dello stesso ed omettendo,
altresì, di prospettare l’esistenza di altri esami diagnostici, certamente più
invasivi e rischiosi, che avrebbero, tuttavia, consentito di diagnosticare con
maggiore attendibilità scientifica la presenza nel feto della sindrome di Down
da cui, poi, la bambina è risultata affetta alla nascita.
Ai fini della problematica che ci occupa, la sentenza in esame va
segnalata poiché costituisce la chiave di volta verso il definitivo superamento
del dogma della irrisarcibilità del c.d. danno da nascita malformata anche in
favore del nascituro, ancorché la fattispecie venga sussunta dagli Ermellini
sub speciedi illecito aquiliano ex art. 2043
c.c. (e, dunque, non del contratto con effetti protettivi a favore del terzo).
In altri termini, per la prima volta
viene riconosciuta la legittimazione attiva del neonato in proprio ad un’azione
risarcitoria nei confronti del medico, che abbia omesso di rilevare la sua
malformazione genetica ed abbia in tal modo precluso alla madre l’esercizio del
diritto di interrompere la gravidanza, pur avendo la stessa manifestato espressamente,
contestualmente alla richiesta dell’esame diagnostico, la propria volontà di
non portare a termine la gravidanza nell’ipotesi di risultato positivo del
Tritest.
Secondo l’orientamento
giurisprudenziale tradizionale, la risarcibilità del danno da nascita
malformata in proprio del neonato veniva esclusa e veniva limitato l’esercizio
del relativo diritto piuttosto alla madre ed al padre del bimbo malformato, per
una serie di argomentazioni, che scandiscono l’iter logico – giuridico della
sentenza dellaCassazione
n. 14488/2004:
a) nel bilanciamento tra il valore (e
la tutela) della salute della donna e il valore (e la tutela) del concepito,
l’ordinamento consente alla madre di autodeterminarsi, ricorrendone le
condizioni richieste ex lege, a richiedere l’interruzione della gravidanza. La
sola esistenza di malformazioni del feto che non incidano sulla salute o sulla
vita della donna non permettono alla gestante di praticare l’aborto: il nostro
ordinamento non ammette, dunque, l’aborto eugenetico e non riconosce né alla
gestante né al nascituro, una volta nato, il diritto al risarcimento dei danni
per il mancato esercizio di tale diritto (della madre);
b) la legge n. 194 del 1978 consente
invece alla gestante d’interrompere la gravidanza solo quando dalla prosecuzione
della gestazione possa derivare, anche in previsione di anomalie o
malformazioni del concepito, un reale pericolo per la sua salute fisica o
psichica, ovvero per la sua vita;
c) prevale, in seno agli ordinamenti
stranieri, la tendenza a rigettare la domanda proposta in proprio dal nato
malformato e ad accogliere quella dei genitori relativamente ai danni
patrimoniali e non patrimoniali; peraltro, la Corte di Cassazione francese in
assemblea plenaria, nel celebre arrét Perruchedel 27.11.2001, operando un
revirementrispetto
alla precedente giurisprudenza, affermò che, “quando gli errori commessi
da un medico e dal laboratorio in esecuzione del contratto concluso con una
donna incinta impedirono a quest’ultima di esercitare la propria scelta di interruzione
della gravidanza, al fine di evitare la nascita di un bambino handicappato,
questi può domandare il risarcimento del danno consistente nel proprio
handicap, causato dai predetti errori”. A tale pronuncia fece immediato
seguito l’intervento del legislatore (loi Kouchner 303/2002), che escluse
qualsivoglia pretesa risarcitoria dell’handicappato per il solo fatto della
nascita “quando l’handicap non è stato provocato, aggravato o evitato da errore
medico”;
d)la tutela giuridica del
nascituro, pure prevista dal nostro ordinamento, è peraltro regolata in
funzione del diritto del concepito a nascere (sano), mentre un eventuale
diritto a non nascere sarebbe un diritto adespota in quanto, a norma dell’art.
1 c.c., la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, ed i
diritti che la legge riconosce a favore del concepito (artt. 462, 687, 715
c.c.) sono subordinati all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la
nascita.Nella
fattispecie, invece, il diritto di non nascere, fino alla nascita, non avrebbe
un soggetto titolare dello stesso, mentre con la nascita sarebbe
definitivamente scomparso;
e)sotto altro profilo, ma
nella stessa ottica, ipotizzare il diritto del concepito malformato di non
nascere significa concepire un diritto che, solo se viene violato, ha, per
quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi
non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di non nascere),
non vi è mai un titolare.Il
titolare di questo presunto diritto non avrà mai la possibilità di esercitarlo
(non esisterebbe un soggetto legittimato a farlo valere): non può farlo valere,
ovviamente, il concepito, ancora non nato; non potrebbe farlo valere,
altrettanto ovviamente, il medico; non potrebbe essere esercitato neppure dalla
gestante. Il suo diritto all’aborto non ha, infatti, una propria autonomia, per
quanto relazionata all’esistenza o meno delle malformazioni fetali, come invece
nella legislazione francese,ma
si pone in una fattispecie di tutela del diritto alla salute: il diritto che ha
la donna è solo quello di evitare un danno serio o grave, a seconda delle
ipotesi temporali, alla sua salute o alla sua vita. Per esercitare detto
diritto, nel bilanciamento degli interessi, l’ordinamento riconosce la possibilità
alla donna di interrompere la gravidanza, ed è la necessità della tutela della
salute della madre che legittima la stessa alla (richiesta di) soppressione del
feto scriminandola da responsabilità(se l’interruzione della
gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978,
accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8, costituisce reato anche per la
stessa gestante ex art. 19 stessa legge);
f)il nostro ordinamento
positivo tutela il concepito – e quindi l’evoluzione della gravidanza –
esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui, se di
diritto vuol parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere;
g)va poi osservato che, se
esistesse detto diritto a non nascere se non sano, se ne dovrebbe ritenere
l’esistenza indipendentemente dal pericolo per la salute della madre derivante
dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore problema, in assenza di
normativa in tal senso, di quale sarebbe il livello di handicap per legittimare
l’esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto livello
è legittimante della non nascita. Infatti, anche se non vi fosse pericolo per
la salute della gestante, ogni qual volta vi fosse la previsione di
malformazioni o anomalie del feto, la gestante, per non ledere questo presunto
diritto di “non nascere se non sani”, avrebbe l’obbligo di richiedere
l’aborto, altrimenti si esporrebbe ad una responsabilità (almeno patrimoniale)
nei confronti del nascituro una volta nato. Quella che è una legge per la tutela
sociale della maternità e che attribuisce alla gestante un diritto
personalissimo, in presenza di determinate circostanze, finirebbe per imporre
alla stessa l’obbligo dell’aborto(salvo
l’alternativa di esporsi ad un’azione per responsabilità da parte del nascituro).
Un primo tentativo di riconoscere una
qualche legittimazione attiva al neonato malformato si è avuto con lasentenza della Cassazione
n. 10741/09[3],
la quale, argomentando dalla clausola generale della centralità della persona,
quale principio ispiratore della Costituzione e, più in generale, del sistema
ordinamentale nazionale, comunitario ed internazionale, ha riconosciuto al
nascituro/concepito una soggettività giuridica, distinta dalla capacità
giuridica, pervenendo alla conclusione che anche il nascituro è titolare dei
diritti fondamentali ed inviolabili garantiti dall’art. 2 Cost., quali il
diritto alla vita, alla salute, all’integrità psico-fisica, all’onore, alla
reputazione, all’identità personale, diritti azionabili, tuttavia, solo
successivamente alla nascita, poiché ai sensi dell’art. 1 c.c. con la nascita
si acquista la capacità giuridica. In virtù di una declamata autonoma
soggettività giuridica del concepito, la Cassazione con la citata sentenza ha
affermato, dunque, il principio di diritto secondo il quale, al suo
“diritto a nascere sano” corrisponde l’obbligo dei sanitari di risarcirlo per
mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del
consenso informato) in ordine ai possibili rischi teratogeni conseguenti alla
terapia prescritta alla madre, sia del dovere di somministrare farmaci non
dannosi per il nascituro stesso. Secondo l’impostazione offerta da questa
pronuncia, il diritto del concepito al risarcimento è condizionato, quanto alla
titolarità, all’evento nascita ex art. 1, comma 2, c.c., ed è azionabile dagli
esercenti la potestà, facendo ricorso alla figura del contratto con effetti protettivi
a favore del terzo, poiché il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari
produce effetti protettivi anche nei confronti del nascituro. Resta esclusa,
tuttavia, la legittimazione del nascituro ad agire in via risarcitoria per il
pregiudizio derivante dall’omessa diagnosi e/o dalla omessa informazione, da
parte del medico, alla madre circa la sua malformazione, attesa
l’inconfigurabilità nel nostro ordinamento di un diritto del concepito a non
nascere se non sano.
Una chiave di lettura completamente
differente, viene invece proposta dalla successiva sentenza dellaCassazione n. 16754/2012,
già citata, che ha il pregio di riconoscere per la prima volta al neonato
malformato la legittimazione attiva ad agire iure proprioper il risarcimento del
danno cagionato dalla condotta colposa del medico, che abbia omesso di
informare adeguatamente la madre delle rilevanti malformazioni di cui il feto
era affetto, precludendo alla gestante la prerogativa di interrompere la
gravidanza, pur in presenza dei presupposti di legge.
La Suprema Corte con la citata sentenza
abbandona la prospettiva del riconoscimento in capo al nascituro di una
soggettività giuridica autonoma e distinta dalla capacità giuridica, affermando
che il concepito debba essere considerato, piuttosto, oggetto di tutela fino
alla nascita, divenendo con la nascita un soggetto di diritto nuovo ed
autonomo, il quale può agire iure proprio, per il tramite del suo
rappresentante legale, per il risarcimento del danno eziologicamente
riconducibile all’errore medico. Tale legittimazione attiva è legata alla
possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione col
feto, non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso.
L’iter logico-giuridico che scandisce
il ragionamento della Corte si snoda attraverso alcuni passaggi argomentativi:
si afferma, infatti, che la soggettività è un’astrazione normativa funzionale
all’imputazione di situazioni giuridiche sia attive che passive, ma non appare
seriamente predicabile l’attuale esistenza, in capo al concepito, dei pur
rinvenuti “interessi personali quali il diritto all’onore, alla reputazione,
all’identità personale”, situazioni soggettive che presuppongono una dimensione
di relazioni sociali (la reputazione, l’identità personale) ovvero una
consapevolezza di sé (l’onore), che, ipso facto, difettano tout courtal concepito sul piano
naturalistico prima ancora che su quello giuridico. “Chi nasce malato” –
prosegue la S.C. – “per via di un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il
concepimentonon
fa, pertanto, valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né
tantomeno un diritto a non nascere.Fa valere, ora per allora,
la lesione della sua salute, originatasi al momento del concepimento. Oggetto
della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico,
la nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della
vita quotidiana) il perdurante e irredimibile stato di infermità. Non la
nascita non sana. O la non nascita”.
La legittimazione attiva
del minore malformato discende, dunque, non da una sua declamata soggettività
giuridica, ma da quella che è stata definita la “propagazione intersoggettiva
degli effetti diacronici dell’illecito”, consistente nella ingiusta lesione del
diritto della madre ad una procreazione cosciente e responsabile, cagionata
dall’omessa diagnosi e/o dalla omessa informazione della malformazione fetale
e, quindi, dalla condotta colposa del medico, i cui effetti lesivi si estendono
anche al nascituro.
Oggetto della tutela risarcitoria è,
per mutuare le espressioni utilizzate dagli Ermellini nella citata sentenza,
“la condizione evolutiva di un’esistenza handicappata”, considerata in una
proiezione dinamica, che non è data dalla somma algebrica di vita + handicap,
ma è “sintesi generatrice di una vita handicappata”. In altri termini, ciò che
va risarcito è un’esistenza menomata, una vita meno agevole, che merita di
essere rispettata e vissuta comunque dignitosamente, e che va alleviata in via
risarcitoria, non potendo il bambino nato malformato esplicare appieno la
propria personalità, sia nella dimensione individuale che in quella familiare,
sociale e relazionale, secondo i migliori auspici della nostra Costituzione. Ed
infatti, il vulnuslamentato
da parte del minore malformato è, innanzitutto,la lesione del suo diritto
alla salute, presidiato dall’art. 32 Cost.,intesa come condizione
dinamico/funzionale di benessere psico-fisico; ma anche “la violazione della
più generale norma dell’art. 2 Cost.,apparendo innegabile la
limitazione del diritto del minore allo svolgimento della propria personalità
sia come singolo sia nelle formazioni sociali;dell’art. 3 della
Costituzione,nella
misura in cui si renderà sempre più evidente la limitazione al pieno sviluppo
della persona; degli
artt. 29, 30 e 31 della Costituzione”, poiché “l’arrivo del minore in una
dimensione familiare «alterata» … impedisce o rende più ardua la concreta
e costante attuazione dei diritti-doveri dei genitori sanciti dal dettato
costituzionale, che tutela la vita familiare nel suo libero e sereno
svolgimento sotto il profilo dell’istruzione, educazione, mantenimento dei
figli”.
Per compiutezza espositiva, segnalo come lo stesso bilanciamento
tra l’interesse del concepito, da un lato, e quello della futura gestante,
dall’altro, ispira l’impianto normativo della Legge 19.02.2004, n. 40, recante
“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita” e, in particolare, le
disposizioni contenute nell’art. 14, che disciplinano la fecondazione in vitro
ed il trasferimento di embrioni. L’art. 1 della Legge citata consente alle
coppie il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, nei casi di
sterilità o di infertilità, “alle condizioni e secondo le modalità previste
dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti,
compreso il concepito”.
Evidenti sono, dunque, le analogie ed il parallelismo tra la L.
n. 194/1978 e la L. n. 40/2004. Tuttavia, mentre nella Legge n. 194/1978 la
tutela del diritto alla salute fisica e psichica della donna può giustificare
il sacrificio della vita del concepito, nella Legge n. 40/2004, secondo
l’impianto normativo originario, la tutela dell’embrione e della donna sono
sullo stesso piano. E in applicazione del principio di piena ed eguale tutela
del concepito, vengono disposte nel capo VI della legge, “misure di tutela
dell’embrione”, che comprendono il “divieto di sperimentazione su embrioni”
(art. 13) e “limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni” (art. 14).
Ho parlato poc’anzi di impianto normativo originario della L. n.
40/2004, poiché proprio in tema di “misure di tutela dell’embrione”, la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza 8 maggio 2009 n. 151,
stabilendo nuovi equilibri tra tutela del diritto alla salute della donna e protezione
dell’embrione: la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 14, comma 2, della L. n. 40/2004, per violazione degli artt. 3 e 32
Cost., nella parte in cui, fermo restando che le tecniche di produzione non
devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario,
limitava tale numero a quello necessario “ad un unico e contemporaneo impianto,
comunque non superiore a tre”; ha dichiarato, altresì, incostituzionale l’art.
14, comma 3, della stessa legge nella parte in cui non prevedeva che il
trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile come
stabilisce tale norma, dovesse essere effettuato senza pregiudizio della salute
della donna. La Consulta muove dalla premessa secondo cui, a dispetto delle
proclamazioni di principio contenute nell’art.1, la tutela che la Legge n. 40/2004
assicura all’embrione non è “assoluta, ma limitata dalla necessità di
individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di
procreazione”. Ciò risulta evidente se si considera che “la legge in
esame rivela – come sottolineato da alcuni dei rimettenti – un limite alla
tutela apprestata all’embrione, poiché anche nel caso di limitazione a soli tre
del numero di embrioni prodotti, si ammette comunque che alcuni di essi possano
non dar luogo a gravidanza, postulando la individuazione del numero massimo di
embrioni impiantabili appunto un tale rischio, e consentendo un affievolimento
della tutela dell’embrione al fine di assicurare concrete aspettative di
gravidanza, in conformità alla finalità proclamata dalla legge … Ciò posto,
deve rilevarsi che il divieto di cui al comma 2 dell’art. 14 determina, con la
esclusione di ogni possibilità di creare un numero di embrioni superiore a
quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, e comunque
superiore a tre, la necessità della moltiplicazione dei cicli di fecondazione
(in contrasto anche con il principio, espresso all’art. 4, comma 2, della
gradualità e della minore invasività della tecnica di procreazione assistita),
poiché non sempre i tre embrioni eventualmente prodotti risultano in grado di
dare luogo ad una gravidanza. Le
possibilità di successo variano, infatti, in relazione sia alle caratteristiche
degli embrioni, sia alle condizioni soggettive delle donne che si sottopongono
alla procedura di procreazione medicalmente assistita, sia, infine, all’età
delle stesse, il cui progressivo avanzare riduce gradualmente le probabilità di
una gravidanza. Il limite legislativo in esame finisce, quindi, per un
verso, per favorire – rendendo necessario il ricorso alla reiterazione di detti
cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non dia luogo ad alcun
esito – l’aumento dei rischi
di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate; per
altro verso, determina, in quelle ipotesi in cui maggiori siano le possibilità
di attecchimento, un
pregiudizio di diverso tipo alla salute della donna e del feto, in presenza di
gravidanze plurime, avuto riguardo al divieto di riduzione embrionaria
selettiva di tali gravidanze di cui all’art. 14, comma 4, salvo il ricorso
all’aborto. Ciò in quanto la previsione legislativa non riconosce al medico
la possibilità di una valutazione, sulla base delle più aggiornate e
accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, del
singolo caso sottoposto al trattamento, con
conseguente individuazione, di volta in volta, del limite numerico di embrioni
da impiantare, ritenuto idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione
assistita, riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della
donna e del feto … La
previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in
assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna che di
volta in volta si sottopone alla procedura di procreazione medicalmente
assistita, si pone, in definitiva, in contrasto con l’art. 3 Cost., riguardato
sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di
uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni
dissimili; nonché con l’art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della
donna – ed eventualmente, come si è visto, del feto – ad esso connesso. Deve,
pertanto, dichiararsi la illegittimità costituzionale dell’art. 14 comma 2,
della legge n. 40 del 2004 limitatamente alle parole «ad un unico e
contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». L’intervento demolitorio mantiene, così, salvo il principio
secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni
superiore a quello strettamente necessario, secondo accertamenti demandati,
nella fattispecie concreta, al medico, ma esclude la previsione dell’obbligo di
un unico e contemporaneo impianto e del numero massimo di embrioni da
impiantare, con ciò eliminando sia la irragionevolezza di un trattamento
identico di fattispecie diverse, sia la necessità, per la donna, di sottoporsi
eventualmente ad altra stimolazione ovarica, con possibile lesione del suo
diritto alla salute. Le raggiunte conclusioni, che introducono una deroga al principio generale di
divieto di crioconservazione di cui al comma 1 dell’art. 14, quale logica
conseguenza della caducazione, nei limiti indicati, del comma 2 – che determina
la necessità del ricorso alla tecnica di congelamento con riguardo agli embrioni
prodotti ma non impiantati per scelta medica – comportano, altresì, la declaratoria
di incostituzionalità del comma 3, nella parte in cui non prevede che il
trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto
in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della
donna”.
Il 28 agosto
2012 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo è intervenuta nel caso Costa e Pavan
contro l’Italia, nel quale i ricorrenti, portatori sani di fibrosi cistica, avevano
richiesto di poter accedere alla fecondazione assistita e alla diagnosi
pre-impianto pur non essendo una coppia sterile, presupposto richiesto dalla
Legge n. 40/2004.
La Corte Europea ha affermato che il divieto di accesso alla
diagnosi pre-impianto costituisce una violazione dell’art. 8 della Convenzione
che testualmente dispone: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria
vita privata e familiare … 2. Non può esservi ingerenza di una autorità
pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista
dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è
necessaria … alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei
diritti e delle libertà altrui”. In particolare, a parere della Corte, l’ingerenza
è certamente “prevista dalla legge” e può ritenersi intesa al perseguimento
degli scopi legittimi di tutela della morale e dei diritti e delle libertà
altrui, ma deve, tuttavia,
ritenersi incoerente,
se si considera la possibilità offerta alle coppie di procedere ad un aborto
terapeutico qualora il feto risulti malato e tenuto conto, in particolare,
delle conseguenze che ciò comporta sia per il feto, il cui sviluppo è
evidentemente assai più avanzato di quello di un embrione, sia per la coppia di
genitori, soprattutto per la donna: argomentazione questa che porta i
Giudici soprannazionali ad escludere la funzionalità del divieto imposto
dall’art. 4 della L. n. 40/2004 – che di fatto si risolve nell’incoraggiamento
del ricorso all’aborto del feto anziché ammettere la selezione dell’embrione
prima dell’impianto nell’utero-, rispetto allo scopo perseguito dalla stessa
legge consistente nella tutela del nascituro. Da tale premessa logico-giuridica
discende l’irragionevolezza del divieto, imposto dall’art. 4 della L. n.
40/2004, alle coppie non affette da sterilità e che siano portatrici di
malattia ereditaria suscettibile di essere trasmessa al concepito, ad accedere
alla procreazione medicalmente assistita e segnatamente alla tecnica della
fecondazione in vitro con selezione dagli embrioni attraverso la diagnosi
pre-impianto. Ammissibile, dunque, secondo la Corte Europea, a pena di
incoerenza dell’intero sistema normativo, la diagnosi pre-impianto sugli
embrioni da trasferire in utero, in funzione della salvaguardia della salute
della donna, analogamente a quanto avviene per l’aborto a presidio del diritto
ad una procreazione cosciente e responsabile[4].
Richiamando il decisum della CEDU del 28 agosto 2012, il Tribunale di Cagliari, con
ordinanza del 9 novembre 2012, ritenendo possibile una interpretazione adeguatrice delle
norme interne e, segnatamente dell’art. 13, comma 1 (che sancisce, in linea di principio,
il divieto di qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano) e comma 2 (che, quale eccezione alla stessa
regola, ammette la possibilità di effettuare la ricerca clinica e sperimentale
su ciascun embrione umano a condizione che si perseguano finalità
esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela
della salute ed allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano
disponibili metodologie alternative), nonchè dell’art.
14, comma 5, della L. n. 40/2004 che
riconosce il diritto dei futuri genitori ad essere adeguatamente informati
sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero, ha
ritenuto ammissibile la diagnosi pre-impianto ed ha accolto il ricorso proposto
dalla coppia, di cui era stata accertata la condizione di infertilità. Nel caso
sottoposto al vaglio del Tribunale sardo, la donna era affetta da talassemia
major, l’uomo era portatore sano della medesima patologia, di talchè i
ricorrenti avevano richiesto ai presidi pubblici, cui si erano rivolti per
accedere alla procreazione medicalmente assistita, di procedere ad indagine
clinica sull’embrione da impiantare, atteso che la loro condizione comportava
il rischio, pari al 50%, di generare un figlio con la stessa malattia.
Tale ordinanza si inserisce, invero, nel solco giurisprudenziale
già tracciato dal 2007, che il Tribunale sardo delinea attraverso il richiamo a
precedenti conformi, ed in particolare: ad un’ordinanza dello stesso Tribunale di Cagliari del 24
settembre 2007, ad un provvedimento del Tribunale
di Firenze del 17 dicembre 2007, ad un altro del Tribunale di Bologna del 29 giugno
2009 e, da ultimo, ad
un’ordinanza del Tribunale di
Salerno del 9 gennaio 2010, che, rispetto ai provvedimenti precedenti, ha
introdotto un elemento di novità, ritenendo ammissibile la diagnosi
pre-impianto sull’embrione anche per le coppie fertili, che presentino un
rischio qualificato di trasmissione di malattie gravi ed inguaribili.
Di recente, poi, il Tribunale
di Roma, Sezione Famiglia, con provvedimento del 26 settembre 2013 ha accolto il ricorso proposto ex art.
700 c.p.c. da una coppia di coniugi, entrambi portatori sani di fibrosi
cistica, che si erano visti opporre dal Centro medico, cui si erano rivolti, il
rifiuto di procedere a procreazione medicalmente assistita con diagnosi
pre-impianto dell’embrione da trasferire in utero, in quanto coppia non
sterile. Nel caso de quo i coniugi avevano già trasmesso la
patologia di cui erano portatori sani alla prima figlia; nel desiderio di avere
un secondo figlio, attesi gli esiti negativi di una seconda spontanea
gravidanza che la moglie era stata costretta ad interrompere con un aborto
terapeutico, essendo il feto risultato anch’esso affetto dalla suddetta
patologia, i coniugi, a fronte del divieto di accesso alla tecnica di
procreazione medicalmente assistita per le coppie che non siano sterili o
infertili sancito dall’art. 4 della L. n. 40/2004, avevano presentato, in data
16.09.2010, ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per sentir
accertare l’illegittimità della norma de
qua. Si tratta del caso Costa-Pavan contro l’Italia, deciso della Corte
Europea dei diritti umani con la citata sentenza del 28.8.2012, divenuta
definitiva in data 11.02.2013.
Secondo il Tribunale di Roma è pacifico che la coppia ha diritto
a ricevere una completa informativa funzionale ad una procreazione libera e
consapevole e la diagnosi prei-mpianto ha come scopo proprio quello di
consentire alla donna una decisione informata e consapevole in ordine al
trasferimento degli embrioni formati ovvero al rifiuto di detto trasferimento.
E’ attraverso la suddetta diagnosi che viene tutelato, tanto il diritto
all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti, quanto, al contempo il diritto
alla salute psico-fisica della futura gestante, essendo innegabile che gli
embrioni affetti da gravi patologie genetiche possano seriamente determinare
una prosecuzione patologica della gravidanza, compromettendo l’integrità
psico-fisica donna, quale effetto della malformazione del concepito, creandosi
un sostanziale parallelismo con la disciplina contemplata dalla legge
sull’aborto che consente alla donna di procedere all’interruzione della
gravidanza in tutti i casi in cui il parto o la maternità comportino un serio
pericolo per la sua salute fisica o psichica o anche in relazione a previsioni
di anomalie o malformazioni del concepito, in tale specifico caso anche dopo il
decorso dei primi 90 giorni, ancorché a condizioni più restrittive.
Quella del Tribunale di Roma è stata definita una pronuncia
“storica”, poiché nessuno dei precedenti conformi innanzi citati, così come
neppure l’ordinanza resa dal Tribunale di Cagliari in forma di provvedimento ex
art. 700 c.p.c. in data 9.11.2012, aveva affrontato la problematica relativa
all’accesso alla procreazione medicalmente assistita da parte di coppie che non
presentassero problemi di infertilità o sterilità, ad eccezione del Tribunale
di Salerno che, con la richiamata ordinanza del 9 gennaio 2010, aveva ritenuto,
malgrado l’espresso tenore della littera
legis, di superarne in via interpretativa la formulazione testuale,
sostenendo che non solo la legge non prevede alcuna sanzione nei confronti del
medico che pratichi la procreazione medicalmente assistita a favore di coppie
non sterili, ma che comunque la diagnosi pre-impianto tutela il diritto
fondamentale e personalissimo di entrambi i genitori di autodeterminazione
nelle scelte procreative, indipendentemente dalla sussistenza di problematiche
afferenti la sterilità.
Il Tribunale di Roma è pervenuto alle medesime conclusioni, non
limitandosi, tuttavia, ad una interpretazione costituzionalmente orientata
delle norme della L. n. 40/2004, bensì disapplicando l’art. 4, comma 1, della
L. n. 40/2004, in ragione della portata precettiva della sentenza
definitiva della CEDU. Il Giudice romano si è allineato all’orientamento
espresso sul punto dalla Corte
di Cassazione con sentenza 30.9.2011 n. 19985. La S.C. ha affermato che la
portata precettiva delle sentenze CEDU, sancita dall’art. 46 della Convenzione
(secondo cui “Le Alte parti contraenti si impegnano a conformarsi alle
sentenze definitive della Corte sulle controversie delle quali sono
parti”), al pari delle norme materiali convenzionali, esclude che il
Giudice interno, il quale ha la concreta disponibilità di incidere sulla
fattispecie concreta, possa “ignorare e svuotare di contenuto il
decisum definitivo della Corte Europea, anche se si tratta di condanna dello
Stato a titolo di equa soddisfazione per la quale non vi è bisogno di alcun
exequatur e di fronte alla quale lo Stato condannato non ha altra scelta se non
quella di pagare“.
In altri termini, la Cassazione ha sancito la natura precettiva
delle norme della Convenzione Europea con il conseguente obbligo per il
Giudice dello Stato di applicare direttamente la norma pattizia, precisando che
la decisione definitiva della Corte EDU abbia “nell’ambito interno,
e in relazione al procedimento, valore assimilabile al giudicato formale,
ovvero valevole per il solo procedimento in corso ed, in quanto tale, con ovvia
ricaduta sulla situazione che è chiamato ad affrontare, in quanto presupposto
logico – giuridico delle relative problematiche che è chiamato a risolvere“.
Decisione questa pienamente in linea con l’interpretazione già adottata nel
2005 dalle Sezioni Unite della stessa Cassazione secondo cui, come ancor più
esplicitamente affermato “la natura immediatamente precettiva delle
norme convenzionali a seguito della ratifica dello strumento di diritto
internazionale comporta la natura sovraordinata delle norme della Convenzione,
sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna con la norma
pattizia, dotata di immediata precettività nel caso concreto” (Cass.,
S.U. 23.12.2005, n. 28507).
Ne discende che il
Giudice comune sia chiamato a dar seguito alle decisioni di condanna del
Giudice europeo senza necessità di sollevare l’ulteriore pregiudiziale di
costituzionalità, ogni qualvolta la regola ricavabile dalla sentenza CEDU sia
sufficientemente precisa ed incondizionata da sostituirsi, senza margini di
ambiguità, a quella interna riconosciuta contraria alla Convenzione,
laddove la rimessione alla Corte Costituzionale dovrà essere limitata alle sole
questioni che, pur in presenza di una regola CEDU autoapplicativa, evidenzino
un possibile contrasto tra quest’ultima e i principi supremi dell’ordinamento
costituzionale. Il che vale a
fortiori nel caso in esame in
cui, trattandosi delle stesse parti che hanno adito la Corte EDU ottenendo
l’accoglimento del ricorso, le statuizioni della Corte di Strasburgo, proprio
perché direttamente efficaci nell’ordinamento nazionale, rivestono valore di
giudicato formale per il processo interno (conclusione questa indirettamente
confermata anche dalla recentissima sentenza della Corte Costituzionale
3.7.2013 n. 210, in cui si precisa che allorquando la sentenza della Corte
Europea cui occorre conformarsi implica l’illegittimità costituzionale di una
norma nazionale, allorquando la pronuncia della Corte sia specifica, debba
darsene esecuzione diretta da parte del Giudice nazionale senza sollevare
questione di illegittimità costituzionale).
Ciò premesso, argomenta il Tribunale di Roma, “poiché l’unico
vaglio cui questo Giudice è chiamato è costituito dalla conformità del
principio applicabile secondo la Corte Europea all’ordinamento costituzionale,
deve ritenersi che alla suddetta sentenza possa darsi immediata esecuzione.
Invero il principio secondo il quale il divieto di accesso dei coniugi Co. –
Pa., in quanto portatori sani di grave malattia ereditaria e come tale
trasmissibile al concepito, alla PMA attraverso la selezione pre – impianto
degli embrioni è in contrasto con l’art. 8 CEDU, si allinea con
l’interpretazione data dalla Corte Costituzionale alla L. 40/2004, con la
citata sentenza 151/2009 che ha portato alla dichiarazione di
incostituzionalità dell’art. 14, II e III comma, secondo la quale la tutela
apprestata dalla novella all’embrione non è assoluta, ma limitata dalla
necessità di individuare un giusto bilanciamento tra la tutela delle esigenze
della procreazione ed il diritto alla salute della donna sotto il profilo sia
fisico sia psichico ed eventualmente del feto, fermo restando il rispetto del
limite che le acquisizioni scientifiche, chiamato ad applicare le quali è
soltanto il medico che opera in concreto le necessarie scelte professionali,
pongono alla discrezionalità legislativa: al che consegue che la selezione,
mediante diagnosi pre – impianto, degli embrioni non affetti dalla patologia di
cui entrambe le parti sono portatrici trova la sua piena legittimità,
assolvendo non già a finalità di selezione della specie, bensì alla necessità
di tutela della madre evidenziata dalla stessa Corte Costituzionale. Non
soltanto l’illegittimità dell’art. 4, I comma, L. 40/2004 affermata dalla Corte
Europea non si pone sotto alcun profilo in contrasto con i principi consacrati
nella Costituzione italiana, ma, al contrario, è proprio il divieto di accesso
alla PMA per le coppie fertili e al contempo trasmettitrici di gravi malattie
ereditarie a porsi in assoluta dissonanza con il diritto alla salute consacrato
nella Carta Fondamentale tra i diritti assoluti (art. 32 Cost.), non essendosi
il Legislatore del 2004 fatto carico di prendere in esame quello stesso
«pericolo per la salute psico – fisica della donna» che pure quasi 30 anni
addietro aveva ritenuto, con la legge 194/1978, causa legittimante
l’interruzione della gravidanza che, ove eseguita oltre i 90 giorni, così come
è previsto nelle ipotesi di anomalie o malformazioni del nascituro, non è
neppure più tecnicamente configurabile come «aborto» realizzandosi invece
attraverso un vero e proprio intervento chirurgico. Sulla scorta delle
sovraesposte considerazioni, devono pertanto escludersi i presupposti necessari
a sollevare questione di illegittimità costituzionale in relazione alla norma
in esame”.
Concludendo: la salute e la vita della donna e del nascituro
sono valori, in linea di principio, “assoluti”, ed ormai ben possono
considerarsi tutelati dalla migliore giurisprudenza nazionale ed europea, che,
attraverso una costante opera di esegesi sistematica, evolutiva ed adeguatrice
del dato normativo interno a quello sovranazionale, plasma il diritto e lo
attualizza alla realtà storica ed al contesto sociale del momento, delineando
delicati equilibri nel bilanciamento tra interessi confliggenti. Non si può,
tuttavia, non rilevare come la tutela apprestata alla posizione giuridica di
colui qui in utero est sia comunque una tutela affievolita,
perdurando ancora oggi il convincimento, espresso dalla Consulta nel 1975,
della non equivalenza, sotto il profilo rigorosamente giuridico, fra il diritto
alla vita ed il diritto alla salute proprio di chi già è persona, come la
madre, e la salvaguardia del concepito che persona deve ancora diventare.
Avv.
Emanuela PALAMA’
[1] Relazione tenuta nel corso del Convegno
“L’indisponibilità dei diritti nella famiglia e i limiti dell’autonomia
negoziale” organizzato dall’AMI – Sezione distrettuale di Lecce e svoltosi in
Lecce il 22.11.2013 presso le Officine Cantelmo.
[2] Questa sentenza si segnala poiché ha
affermato il principio di diritto, secondo il quale “la responsabilità
sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita
indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della madre nella qualità di
parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato),
anche al padre (come già affermato da Cass. n. 14488/2004 e prima ancora da
Cass. 6735/2002), nonché, a giudizio del collegio, alla stregua dello stesso
principio di diritto posto a presidio del riconoscimento di un diritto
risarcitorio autonomo in capo al padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del
neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto
intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è
dovuta”. Superando l’orientamento tradizionale sfavorevole al
riconoscimento di una legittimazione attiva del padre del nascituro, affetto da
una malformazione non diagnosticata, a promuovere un’azione risarcitoria, la
giurisprudenza ha rilevato che il rapporto contrattuale (o da contatto sociale
qualificato) intercorrente tra la gestante ed il ginecologo è riconducibile
sotto il profilo dogmatico al contratto
con effetti protettivi a favore del terzo, figura di elaborazione giurisprudenziale
tedesca che trova applicazione nel nostro ordinamento in base al combinato
disposto degli artt. 1372, c.2, c.c. e 1411 c.c., norma, quest’ultima, che
introduce la disciplina del contratto a favore del terzo. Si è, pertanto,
sostenuto che se è normativamente prevista una fattispecie negoziale, in virtù
della quale da un contratto inter
alios possano derivare
effetti a favore di un terzo, purché ad esso favorevoli, è ben possibile
configurare che da un rapporto intercorrente direttamente tra due parti sorga
il diritto del terzo a non essere danneggiato dalle conseguenze pregiudizievoli
di un inadempimento contrattuale. Del resto, il sanitario assume, non solo un
obbligo di cura verso la paziente al medesimo affidata, ma anche una serie di
c.d. obblighi di protezione nei confronti di tutti i soggetti legati alla donna
da un rapporto di proximitas,
che gli impongono di evitare che da una propria condotta colposa, non
improntata ai canoni della perizia e della diligenza qualificata, possa
derivare un pregiudizio ai beni primari di cui i medesimi sono titolari, quali
il diritto alla vita, alla salute, all’integrità psico-fisica. Il padre del
nascituro affetto da una malformazione, infatti, completamente ignaro di tale
anomalia, programma la sua vita familiare riflettendo sui propri doveri
genitoriali, senza preventivare e, per così dire, mettere in conto che la sua
vita familiare sarà completamente stravolta dalla presenza di un bimbo
malformato. Tanto è vero che, ai fini della individuazione dei danni
risarcibili, la giurisprudenza, oltre al danno patrimoniale liquidabile in
un’unica soluzione al padre ed alla madre, consistente nell’esborso del denaro
necessario per le spese di assistenza sanitaria del figlio portatore di
handicap, ha riconosciuto un danno che se non esclusivamente, è sostanzialmente
esistenziale, poiché la nascita malformata imputabile all’omessa diagnosi del
medico implica un “rovesciamento dell’agenda” della vita familiare (cfr. Cass.
n. 13/2010), ossia un inevitabile e consistente peggioramento dell’esistenza
quotidiana, che la donna avrebbe voluto e potuto evitare, se soltanto messa
nella condizione di esercitare il diritto ad una maternità consapevole e
responsabile, preclusa, invece, dalla condotta colposa del ginecologo che ha omesso
l’accertamento diagnostico della malformazione ovvero una idonea informazione
(ai fini del consenso informato) alla gestante dell’accertata malformazione
fetale. Tale voce di danno non patrimoniale, che le diverse pronunce
giurisprudenziali evitano di qualificare alla stregua di danno biologico,
esistenziale o morale, in ossequio agli insegnamenti espressi dalle Sezioni
Unite della Cassazione con le note sentenze nn. 26972 e 26974 del S. Martino
del 2008, viene riconosciuta anche al padre, nonché ai fratelli e/o sorelle del
nascituro, “danno intanto consistente, tra l’altro … nella
inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione
del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap,
nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i
genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le
quali appaiono invece non sempre compatibili con lo stato d’animo che ne
informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno fortunato” (Cass.
n. 12754/2012 cit.).
La responsabilità del sanitario per l’omessa diagnosi e/o omessa
informazione alla gestante di una malformazione fetale e la conseguente nascita
di un bambino non sano – secondo il criterio della c.d. regolarità causale –
può configurarsi in tutti i casi in cui la donna alleghi la circostanza che
l’accertamento e la comunicazione, colposamente omessi dal medico, circa la
presenza di una malformazione fetale avrebbe determinato la stessa, secondo il
criterio del “più probabile che non”, ad interrompere la gravidanza,
presumendosi la ricorrenza dei presupposti previsti dalla L. n. 194/1978, quali
condizioni dell’aborto. Sarebbe, invece, necessario fornire la prova, e non
limitarsi alla mera allegazione di siffatta circostanza, quando questa sia
oggetto di contestazione ad opera della controparte, incombendo sull’attrice,
che agisca per il risarcimento dei danni conseguenti alla nascita
malformata riconducibili all’omessa diagnosi e/o alla omessa informazione circa
la malformazione fetale, dimostrare che l’acquisizione di tale informazione
avrebbe determinato sul piano della causalità ipotetica l’insorgenza di una
patologia psico-fisica nella donna (cfr. Cass. civ., Sez. III, 10
novembre 2010, n. 22837 e da ultimo Cass. n. 16754/12 cit.). Va,
tuttavia, precisato che secondo altro orientamento della Suprema Corte (Cass.,
2 febbraio 2010, n. 2354) quando siano decorsi più di novanta giorni dal
concepimento, la donna è sempre tenuta a dimostrare che, ove consapevolmente informata
dal sanitario della presenza di una malformazione fetale, avrebbe interrotto la
gravidanza, poiché l’accertamento dell’esistenza di rilevanti anomalie o
malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in
pericolo la sia fisica o psichica. Si tratta di una valutazione ex ante (c.d.
prognosi postuma), che il Giudice deve compiere caso per caso, secondo un
criterio di probabilità logica e non meramente statistica, tenendo conto,
altresì, della gravità della malformazione del feto e dello stadio della
gravidanza, anche in ragione della circostanza che la L. n. 194/1978 modula
diversamente l’esercizio del diritto della gestante all’interruzione volontaria
della gravidanza, a seconda che tale scelta sia compiuta prima o dopo il
decorso di novanta giorni dal concepimento. Si tratta, cioè, di acclarare se
possa ritenersi certo o altamente probabile che la conoscenza della patologia
del feto, al momento degli opportuni accertamenti, avrebbe determinato un grave
pericolo alla salute della madre. Si è, quindi, in presenza di un ragionamento
meramente ipotetico che deve essere condotto, secondo il criterio “del più
probabile che non”, alla luce delle condizioni esistenti nel momento in cui
l’omissione si è consumata. Non è, dunque, rilevante accertare tanto se nella
donna, dopo il parto, si siano effettivamente instaurati processi patologici
pregiudizievoli per il benessere fisico o anche soltanto psichico della
medesima, quanto piuttosto se la dovuta informazione avrebbe verosimilmente
determinato l’insorgere degli stessi durante la gravidanza (cfr. Cassazione,
Sez. III civ., 22 marzo 2013, n. 7369). L’onere probatorio potrà essere assolto
dalla donna anche mediante il ricorso a presunzioni, valutabili dal Giudice
secondo il suo prudente apprezzamento ai sensi dell’art. 116 c.p.c.. Pertanto,
in mancanza di un’espressa dichiarazione della gestante di voler interrompere
la gravidanza in presenza dell’accertamento di malformazioni fetali, non può
sempre desumersi dalla sola richiesta di accertamenti diagnostici l’inferenza
logica e giuridica della volontà di interruzione della gravidanza, con la
conseguenza che, in difetto di qualsivoglia ulteriore elemento che “colori”
processualmente il contenuto di detta presunzione, il Giudice non può
ricostruire, sulla base dell’id quod plerumque accidit, la volontà della
gestante rispetto alla prosecuzione od alla interruzione della gravidanza. Ciò
impone al Giudice un’attenta ed oculata disamina del caso concreto sottoposto
al suo vaglio.
[3] Il caso sottoposto al vaglio della S.C.
riguardava una coppia che si era rivolta ai sanitari, poiché la donna aveva
problemi a rimanere incinta. I medici avevano prescritto alla donna una terapia
farmacologica, senza comunicarle l’esistenza del rischio di gravi conseguenze
per la salute del feto. Dopo il concepimento, poi, le avevano somministrato un
diverso farmaco, che aveva provocato la malformazione del figlio.
[4] La Corte Costituzionale, con sentenza
n. 80 del 07.03.2011 (e, ancor prima, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007)
ha aderito alla tesi secondo cui le norme della Cedu integrino, quali norme
interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art.117, primo comma,
della Costituzione, nella parte in cui impone la conformazione della
legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. In
questa prospettiva, qualora si profili un eventuale contrasto fra una norma
interna ed una norma della Cedu, il Giudice nazionale deve verificare anzitutto
la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla
Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; ove
tale verifica dia esito negativo – non potendo disapplicare la norma interna
contrastante – deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione
di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro.