L’invio della coppia in mediazione
familiare come strumento di sostegno della genitorialità è una delle misure che ben può essere
adottata dal Tribunale per salvaguardare il diritto al rispetto della vita privata e familiaredi cui all’art. 8 della Convenzione Europea
dei Diritti dell’Uomo.
La corretta interpretazione della disposizione richiamata, infatti, impone agli Stati contraenti non solo di astenersi da ingerenze arbitrarie nella vita familiare (i c.d. obblighi negativi), ma anche di adottare i c.d. obblighi positivi, diretti ad assicurare l’effettivo rispetto della vita privata e familiare; obblighi che possono implicare la predisposizione di interventi che permettano il corretto mantenimento delle relazioni genitoriali e che non implicano esclusivamente che le autorità vigilino affinché il minore possa mantenere contatti con entrambi i genitori separati, comprendendo piuttosto tutte le misure propedeutiche al raggiungimento di questo risultato, fornendo risposte non deboli, tempestive ed adeguate al caso concreto. Per essere adeguate, le misure deputate a riavvicinare il genitore non collocatario con il figlio minore devono essere attuate rapidamente, perché il trascorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui. Non deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche. (vd. Corte Eur. Dir. Uomo, sez. II, sentenza 29 gennaio 2013 – causa Lombardo c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo, sentenza 17 novembre 2015 – causa Bondavalli c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo sentenza 23 marzo 2016 – causa Strumia c. Italia; Corte Eur. Dir. Uomo sentenza 15 settembre 2016 – causa Giorgioni c. Italia).
A questa chiave di lettura, per così dire convenzionalmente orientata, anche ai sensi dell’art. 117 Cost. (che impone il rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) può essere ricondotta la recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 11842 del 02 aprile – 06 maggio 2019 in materia di separazione personale tra coniugi. La Suprema Corte ha confermato la decisione dei giudici di merito, i quali, per superare le difficoltà relazionali riscontrate nella coppia genitoriale in fase di separazione, avevano ritenuto opportuno che i genitori intraprendessero un percorso di mediazione familiare, disponendo testualmente che il consultorio “prenda in carico il nucleo familiare e predisponga un percorso di sostegno psicologico della minore e di supporto alla genitorialità di entrambe le parti“, e ciò a tutela del pieno interesse della minore. Tale decisione deve ritenersi compatibile con il rispetto dell’altrui diritto soggettivo genitoriale, in questa materia – chiarisce la Suprema Corte – subordinato al preminente interesse del minore che, nel caso di specie era a rischio di pregiudizio per l’elevata conflittualità genitoriale, sulla quale tuttavia era possibile incidere positivamente proprio mediante l’attivazione di un percorso di mediazione familiare a sostegno della genitorialità, al fine di prevenire ulteriori gravi danni al minore.
Naturalmente,
il percorso di mediazione familiare è e rimane volontario; quindi anche quando la
coppia arriva in mediazione su sollecitazione del Tribunale, è la coppia
medesima, che dopo il primo incontro informativo con il mediatore, ha facoltà
di decidere se intraprendere e/o proseguire il percorso mediativo e, dunque, di
decidere liberamente e responsabilmente se darsi o meno l’opportunità di vivere
e gestire la separazione con consapevolezza e maturità, soprattutto nell’interesse
dei figli.
Il mediatore familiare è un “traghettatore” della comunicazione, come lo definisce icasticamente il prof. Vittorio Cigoli, una guida che orienta le parti a trovare da sé soluzioni condivise, sviluppando e valorizzando la loro autonomia decisionale e negoziale. Ruolo del mediatore è “stare nel mezzo” per motivare e spronare senza manipolare. Il mediatore familiare non difende e non rappresenta nessuno dei due componenti della coppia che sono posti su un piano di assoluta parità tra loro; è un terzo imparziale, che in un contesto neutrale e confidenziale, in assoluta autonomia dall’ambito giudiziario e nella garanzia del segreto professionale, li aiuta a riorganizzare la propria vita dopo la separazione senza delegare a terzi le proprie scelte in ordine a tutti gli aspetti, relazionali e patrimoniali della separazione nonché inerenti alla cura ed all’educazione dei figli. Tanto, sul presupposto che anche dopo la separazione si rimane genitori sempre, non vi siano un perdente ed un vincitore, ma entrambi i genitori ne escano vincenti insieme. Il mediatore non giudica, non dà consigli, non suggerisce soluzioni, aiuta i mediandi a trovare essi medesimi le soluzioni più atte a soddisfare le esigenze di tutti i componenti della famiglia, compresi i figli, nella diversa dimensione di genitori separati.
Nella
sentenza in commento la Corte di Cassazione precisa, altresì, che irrilevante e
inconferente è il richiamo, operato daI ricorrente, ad una precedente pronuncia
della stessa Corte di Cassazione, la sentenza n. 13506 del 05 marzo – 11 luglio
2015, laddove riteneva contraria e lesiva del diritto alla libertà personale
costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta l’imposizione, se
non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari obbligatori (art. 32
Cost.), la decisione dei giudici di merito che aveva prescritto ai genitori di
sottoporsi ad un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia.
In
quel caso, la coppia aveva già intrapreso un percorso di mediazione familiare,
tuttavia, fallito a causa della condizione di immaturità della coppia
genitoriale, rilevata in sede di CTU, che impediva il reciproco rispetto dei
rispettivi ruoli stante l’elevato livello di conflitto personale. Pertanto,
mentre il percorso di sostegno alla genitorialità che può essere realizzato
attraverso un percorso di mediazione familiare è funzionale a garantire la
centralità del minore nella vicenda separativa e la tutela del suo diritto a mantenere rapporti
equilibrati e continuativi con entrambi i genitori ancorché separati, il
percorso psico-terapeutico, pur se in ultima analisi funzionale a garantire il
benessere psico-fisico del minore, ha una finalità che esula dai poteri del
giudice ed è estranea al giudizio, ossia quella di realizzare una maturazione
personale dei genitori che deve rimanere affidata al loro diritto di
autodeterminazione.
Il mediatore familiare, del resto, non svolge sedute di terapia di coppia, in quanto non ha come obiettivo il mantenimento o la ricostituzione del legame coniugale o di fatto, ma quello di garantire la continuità della funzione genitoriale in presenza di una volontà di separazione/divorzio espressa dalla coppia stessa.
L’Avv. Emanuela Palama’, intervistata dallo speaker Ronny Trio di Radio Manbassa, ha parlato di affari di cuore, amori traditi ai tempi dei social network e mediazione familiare.
Convegno organizzato dall’Associazione “Officina Familiae” (Ente culturale senza scopo di lucro a tutela dei valori e dei diritti della persona, della famiglia e dei minori), con il patrocinio del Comune di Lecce, dell’Ufficio della Consigliera di Parità della Provincia di Lecce, dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e dell’Ordine degli Assistenti Sociali (c/o Aula Magna della Corte di Appello di Lecce, 01.04.2016 ore 15:30). La finalità dell’evento è quella di diffondere la conoscenza e l’utilità della mediazione, quale strumento per la gestione costruttiva del conflitto in famiglia, nella scuola e, più in generale, in ogni ambito del vivere civile e, dunque, con funzione compositiva e negoziale della lite. Sarà dato spazio anche alla mediazione penale quale strumento di giustizia riparativa, che ha la finalità di responsabilizzare il reo, da un lato, e dare voce alla sofferenza della parte lesa, dall’altro.
Sono un avvocato e mi occupo della tutela dei diritti delle persone, delle famiglie e dei minori. Ho amato questa branca del diritto sin dai tempi universitari, tanto da aver scelto come argomento di discussione della mia tesi di laurea quello sulle coppie di fatto. Ho sempre avuto una spiccata sensibilità e nutrito profondo interesse per le vicende umane, in particolare per quelle che conseguono alla disgregazione dell’unità familiare, dove fanno da padrone, assai spesso, il dolore, la sofferenza, la rabbia, il senso di fallimento e di frustrazione di uno o di entrambi i componenti della coppia che si separa. Nell’esercizio della mia attività professionale mi adopero per tutelare al meglio la posizione del mio cliente, senza dimenticare, tuttavia, che i figli della coppia, soprattutto se minori, pur non essendo attori in prima persona della vicenda separativa dei propri genitori, ne subiscono inesorabilmente gli effetti, senza avere, peraltro, la possibilità di far conoscere i propri sentimenti e bisogni, i propri desiderata ed emozioni. E’ vero che oggi, a seguito della riforma della filiazione introdotta nel tessuto normativo del codice civile dalla L. n. 219/2012 e dal successivo D.Lgs. n. 154/2013, è stato espressamente riconosciuto al figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore se capace di discernimento, il diritto di essere ascoltato in tutte le questioni che lo riguardano, ma l’ascolto di cui ha vero bisogno il minore è, soprattutto, quello dei propri genitori, che invece, il più delle volte, rimangono sordi alle sue istanze, concentrati e ripiegati come sono su se stessi e sulle proprie emozioni negative legate al momento della crisi e della separazione. La condizione più dolorosa per un figlio è quella di sentirsi conteso tra genitori in guerra, di non sentirsi accolto né ascoltato ma strumentalizzato per i fini egoistici dei propri genitori, accecati dalla rabbia e dall’astio reciproco. In casi siffatti, accade, purtroppo di frequente, che un genitore cerchi, e costruisca un vero e proprio rapporto di alleanza col figlio, “tirandolo” dalla sua parte, mettendo in atto su di lui una subdola opera di condizionamento psichico o di vera e propria manipolazione psicologica, tesa alla denigrazione dell’altro genitore ed al conseguente allontanamento del figlio, che può arrivare fino al vero e proprio rifiuto indotto del genitore alienato e della rete parentale ad esso legata (nonni, zii, cugini, ecc.): tutto ciò, ancora una volta, a discapito del superiore diritto del minore a ricevere sia dalla mamma che dal papà, non solo il mantenimento economico, ma anche e soprattutto l’affetto, l’educazione, l’istruzione e tutte le cure necessarie a preservare e consolidare il suo legame affettivo con ciascun genitore, a garantirne una sana ed equilibrata crescita psico-fisica, mantenendo rapporti continuativi anche con i nonni e con tutti i parenti di ciascun ramo genitoriale. Devo ammettere che, da avvocato, ho provato più volte un senso di insoddisfazione, poiché nonostante tutti gli sforzi profusi ed i risultati raggiunti nell’interesse del cliente, ho potuto constatare quanta amarezza, indecisione, vulnerabilità affettiva ed emotiva accompagnino quasi sempre la coppia che si separa, senza, in ogni caso, poter offrire soltanto con il diritto una adeguata e soddisfacente risposta ai problemi relazionali che ne conseguono. Ed anche nei casi in cui sono riuscita ad evitare un contenzioso, assistendo uno o entrambi i coniugi nel raggiungimento di un accordo sulle condizioni della separazione o del divorzio, ho constatato come quasi sempre siano rimasti irrisolti gli aspetti connessi alla capacità delle parti di relazionarsi adeguatamente e/o nel rispetto delle reciproche esigenze; anzi, la concreta difficoltà nel gestire i rapporti tra di essi e/o con i propri figli, pur a seguito di una separazione consensuale o di un divorzio non contenzioso, diviene talvolta fonte di nuove tensioni e di nuove liti. Sulla base della mia esperienza professionale, ho maturato il convincimento che gli operatori del diritto, siano essi avvocati e/o magistrati, per quanto sensibili e portatori di grandi doti umane, non hanno né gli strumenti né le abilità proprie del professionista della relazione d’aiuto, necessarie per “accompagnare” la coppia nel “sostare” nel conflitto, per gestirlo e superarlo in modo costruttivo, soprattutto nell’interesse dei figli. Le fredde aule dei tribunali non sono il luogo più adatto per accogliere i sentimenti e le emozioni, nel mentre le coppie che si separano disvelano chiaramente il bisogno di sentirsi accolte e comprese nel loro dolore, nella loro sofferenza, nel senso di frustrazione, di smarrimento e di fallimento che provano per essere giunti, loro malgrado, all’epilogo della propria storia d’amore. Un amico, che chiameremo Alessandro, separato dalla moglie da circa sei anni con due figli, parlandomi della sua vicenda mi ha detto: “Il giorno della mia separazione è stato per me quello più triste. E’ stata una separazione consensuale, ma mi ha fatto male constatare che il mio matrimonio durato circa dieci anni ed allietato dalla nascita di due splendidi figli, e che, sia pure con alti e bassi, ha visto momenti felici, si sia ridotto, al momento della separazione, ad una questione meramente economica … ho provato tanta tristezza… Ho dovuto accettare le condizioni imposte da mia moglie, poiché era ferma sulle sue posizioni e non mi ha lasciato altra scelta, interessata com’era solo a spillarmi quanti più denari possibile … Oggi i nostri rapporti sono freddi; pensa che io non sia un buon padre, eppure i miei figli mi adorano; non riusciamo a parlarci; comunichiamo tramite sms, perfino la separazione è avvenuta tramite sms … eppure ci sono due figli … ”. La storia di Alessandro è una delle tante vicende che vivono molte coppie che si separano, in realtà solo apparentemente in modo consensuale, poiché alla fine di accordi davvero condivisi e mutuamente accettati vi è ben poco se non proprio nulla. Forse, se Alessandro e la moglie si fossero rivolti ad un mediatore familiare ed avessero intrapreso il percorso mediativo, i loro rapporti oggi sarebbero diversi ed anche i loro figli sarebbero più sereni. Mi piace pensare plasticamente alla mediazione familiare come ad un quadro tridimensionale, o meglio ad uno stereogramma, che disvela le figure o le immagini in esso contenute solo agli occhi dell’attento osservatore che non si limita a guardare la superficie del disegno, ma spinge lo sguardo in avanti fino a che non scorge ciò che esso “nasconde” in profondità. Quando ci si predispone ad osservare uno stereogramma, e ci si perde nell’immagine che si ha di fronte, avviene il massimo del rilassamento fisico e una grande soddisfazione psichica. E’ ciò che accade, in qualche modo, durante il percorso di mediazione familiare, in cui il mediatore aiuta le parti a spingersi al di là delle rispettive e spesso contrapposte posizioni, alla “scoperta” del proprio vissuto personale e di coppia, ma anche dei disagi e delle incomprensioni reciproche, per capirne i bisogni e individuare gli interessi comuni; ciascuno dei mediati, in tal modo, attraverso la sapiente guida del mediatore familiare – professionista qualificato terzo, imparziale ed in posizione neutrale -, impara, per usare le parole di Maria Martello (nota mediatrice familiare), “a «sostare» nei conflitti, a comprendere l’altro senza sovrastarlo, un modo nuovo di ascoltarlo” . Ma la straordinarietà del percorso mediativo si è rivelata ai miei occhi nel momento in cui, animata dalla voglia di esplorare più approfonditamente il mondo della mediazione familiare e di comprenderne meglio i contenuti e le modalità operative, ho deciso di formarmi io stessa come mediatrice familiare per acquisire nuove competenze: accogliere l’alterità, comprendere ciò che sente e caratterizza l’altro, ascoltarlo e comprenderne i bisogni, creare fiducia ed empatia, trovare il giusto equilibrio nelle situazioni per gestire le emozioni ed apprendere “l’arte di mediare”, competenze tutte maturate anche attraverso un processo di introspezione personale sollecitato dal percorso formativo intrapreso, nella ferma convinzione che non si può assumere il ruolo professionale del mediatore familiare senza fare della mediazione, e di tutto ciò che essa comporta, il proprio modo di vivere e di essere. Sotto il profilo strettamente professionale sono rimasta entusiasticamente affascinata dal modo in cui la coppia, nel setting di mediazione, riesce a ripristinare il dialogo interrotto, potenzia le proprie capacità e competenze negoziali, riconosce l’altro come proprio interlocutore e negoziatore, si predispone all’ascolto ed alla profonda comprensione dei bisogni dell’altro, ridefinisce le proprie posizioni spostando l’attenzione sugli interessi comuni, rispetto ai quali condividere le soluzioni più soddisfacenti, e mutuamente accettate, per una gestione non conflittuale della propria separazione, vissuta non più in senso negativo come momento patologico della propria unione, ma come una fase di transizione verso il cambiamento, come opportunità di miglioramento, al fine di riuscire a riorganizzare in modo condiviso la propria quotidianità dopo l’evento separativo, in una logica reciprocamente vincente, “win to win”, e non conflittuale ed agonistica, “lose to win”. Uscirne vincenti insieme significa essere capaci di creare e mantenere un’alleanza, una complicità sul piano genitoriale pur dopo la separazione; significa aver responsabilmente scelto di garantire ai propri figli rapporti affettivi stabili e continuativi sia con la mamma che con il papà, anche se separati. Ed ecco che al termine della prima tappa del mio viaggio nel mondo della mediazione familiare, da attenta osservatrice, mi sento oggi parte integrante di quel quadro tridimensionale, immersa in quello straordinario scenario che si apre alla coppia, nel quale, mutuando le parole di Jacqueline Morineau, “è possibile esprimere le nostre differenze e riconoscere quelle degli altri … nel quale si scopre che i nostri conflitti non sono necessariamente distruttivi, ma possono essere anche generatori di un nuovo rapporto”.
RIFLESSIONI A MARGINE DEL CONVEGNO SU DIRITTO DI DIFESA E MEDIAZIONE FAMILIARE: UN’APPARENTE ANTINOMIA (Avv. Emanuela PALAMA’)
Ho riflettuto a lungo su questa apparente antinomia: “difesa” e “mediazione
familiare” evocano, in effetti, due situazioni o, meglio due approcci al
conflitto di coppia, di natura metodologica ed emotiva differenti: la “difesa”
ci fa pensare all’immagine di una coppia che sugella la fine del proprio amore
e della propria unione dinanzi ad un Giudice, senza guardarsi negli occhi,
senza proferire reciprocamente parola alcuna se non di rabbia, sdegno e rifiuto
dell’altro; la “mediazione familiare”, ci fa pensare ad una situazione
differente che vede quella stessa coppia, quello stesso uomo e quella
medesima donna che si stanno separando, pur inizialmente arroccati ciascuno
sulle proprie posizioni, tentare tra loro un approccio comunicativo, anche
arrabbiandosi e litigando, ma, per così dire, nel modo giusto, in uno spazio
neutrale, spazio nel quale quell’uomo e quella donna, guidati dal Mediatore
familiare, a “dirsi delle cose”, diventano disponibili ad ascoltarsi, a
comprendersi; sono in grado di parlare lo stesso linguaggio arrivando a nutrire
fiducia l’uno nell’altro per decidere insieme ed in modo condiviso le sorti
della propria vita e di quella dei comuni figli in quella fase e dopo l’evento
separativo.
Nel nostro sistema ordinamentale esiste, invero, uno iato tra l’ambito
degli strumenti predisposti a tutela delle pretese e delle istanze che ciascuna
parte vuole siano soddisfatte (affidamento dei figli, assegnazione della casa
coniugale, mantenimento del coniuge e della prole, contributo alle spese
straordinarie, ecc.) e l’area dei bisogni e delle dinamiche emotivo-relazionali
che il conflitto della coppia innesta, non solo nell’ambito della coppia
medesima, bensì anche nel rapporto con i figli e con la rete parentale.
Ma diritti e bisogni non sono inconciliabili; anzi, la soddisfacente difesa
di un diritto dovrebbe passare, anzitutto, attraverso la comprensione del
bisogno sotteso all’istanza di tutela dello stesso. Perciò, parlavo poc’anzi di
antinomia solo APPARENTE.
Albert Einstein (1879-1955) affermava che “La pace non può essere
mantenuta con la forza, può essere solo raggiunta con la comprensione”.
E la comprensione dei bisogni, delle esigenze, delle richieste, delle
emozioni dell’altro (dolore, rabbia, delusione) costituisce la chiave di
lettura delle relazioni conflittuali interne alla famiglia fornita dalla Mediazione
familiare, che sposta l’obiettivo della propria operatività dalla
“risoluzione” alla “gestione” del conflitto, attraverso un percorso teso ad
abbassare il livello della conflittualità nella coppia ed a valorizzare il
reciproco riconoscimento delle capacità negoziali e delle competenze
decisionali di ciascuna parte.
E’, dunque, nello spazio compreso tra l’ambito – proprio del Diritto -, di
individuazione e regolamentazione delle posizioni giuridiche dei
membri della famiglia che si sfascia, da un lato, e quello delle risposte
comportamentali messe in atto dalla coppia e dai figli a fronte dell’evento
separativo, dall’altro, che si colloca la Mediazione familiare.
Il percorso mediativo, infatti, muovendo dall’analisi dei bisogni della
coppia, facilita e/o ripristina il canale di comunicazione interrotto tra le
parti, affinché le stesse in un ambiente neutrale, possano raggiungere
personalmente, rispetto a bisogni ed interessi da loro stesse definiti, su un
piano di parità ed in un clima di reciproca fiducia, un accordo direttamente e
responsabilmente negoziato inerente alla riorganizzazione della propria
quotidianità, successiva all’evento separativo, con particolare riguardo
all’area della genitorialità.
In questa prospettiva la crisi, il conflitto e lo stesso evento separativo
diventano una preziosa opportunità di cambiamento, una risorsa, anzitutto da
conoscere, metabolizzare, accettare, e poi imparare a gestire; la Mediazione
familiare è lo strumento per interpretare i conflitti, un’occasione per imparare
a “sostare” nei conflitti, a comprendere l’altro senza sovrastarlo, un modo
nuovo di ascoltarlo[1].
L’Avvocato o il Magistrato, investiti di una questione attinente alla
separazione dei coniugi o al divorzio ovvero all’affidamento e al mantenimento
dei figli di genitori non sposati, per quanto specializzato in materia e dotato
di sensibilità e doti umane, non potrà mai “entrare” nel conflitto della
coppia, poiché, nel rispetto del proprio ruolo istituzionale, si limiterà ad
individuare le posizioni giuridiche e gli interessi meritevoli di tutela delle
parti e dei figli, applicando la legge.
Anche nei casi di separazione consensuale o di istanze congiunte di
divorzio o di regolamentazione congiunta dell’affidamento e del mantenimento
dei figli nati fuori del matrimonio, l’accordo raggiunto attraverso
l’assistenza dei propri avvocati è assai spesso frutto di compromessi, di
rinunce e concessioni reciproche, più o meno condivise ma non sempre
intimamente accettate da una o da entrambe le parti, poiché in tali casi la
definizione dell’assetto negoziale dei propri interessi nella fase separativa
viene, il più delle volte, delegata ad un terzo (Avvocati prima, Tribunale
poi), tant’è che di consensuale tali accordi non hanno veramente nulla o ben
poco.
Ma un accordo sulle condizioni della separazione può essere elaborato con
soddisfazione e mantenuto nel tempo se è frutto di un autentico processo
negoziale, nell’ambito del quale il vissuto e l’esperienza condivisa della
coppia, rappresenta forse l’unica risorsa attivabile, che non sia la semplice
ricerca del compromesso e dell’adattamento difensivo[2].
In altri termini, la gestione del conflitto di coppia dovrebbe avvenire
mediante l’utilizzazione di un doppio binario, emotivo-affettivo e giuridico,
al fine di individuare un assetto di vita realmente più adeguato a tutti i
membri della famiglia in crisi, figli compresi.
Il diritto da solo non basta! Le fredde aule di Tribunale deludono assai
spesso le aspettative di chi sta vivendo sulla propria pelle l’epilogo luttuoso
del proprio amore!
“L’ambiente (giudiziario, n.d.r.) non accoglie, ma respinge e
centuplica il disagio di chi ha già toccato il fondo o lo toccherà fra poco”,
questa l’amara ma lucida considerazione espressa dall’Avv. Gian Ettore Gassani,
Presidente A.M.I. (Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani), nel suo
saggio “I Perplessi Sposi”[3].
Consentitemi di leggere alcuni stralci, particolarmente significativi,
delle pagine di questo libro:
“Come da prassi, si inizia con le separazioni consensuali, molte delle
quali di consensuale non hanno niente. Procedure che durano pochi istanti,
cinque minuti, forse sei. E poi il sigillo del tribunale. Pochi giorni e tutto
sarà omologato, tutto finito in barba alla indissolubilità del matrimonio.
I due coniugi entrano insieme nella stanza del giudice accompagnati dai
loro difensori. Tutto è già pronto da mesi, l’accordo era stato già raggiunto.
Il giudice si limita a leggere le condizioni della separazione – figli, casa,
soldi – come un notaio davanti a un contratto. Il tentativo di conciliazione,
ultimo sforzo per salvare il matrimonio, dura cinque o sei secondi. Una farsa,
una formalità, gli sprovveduti coniugi potevano pensarci prima ed evitare tutto
questo. Due firme e via, avanti un’altra coppia.
Alcuni escono piangendo, altri tirano un sospiro di sollievo. In fondo
anche nelle separazioni consensuali c’è sempre un coniuge che scappa e l’altro
che sigla l’accordo. In un’ora le consensuali saranno tutte chiuse come i
rispettivi fascicoli, uno sull’altro, tristemente in bilico al pari delle
storie che contengono.
Arriva il momento delle separazioni giudiziali, quelle in cui si stendono i
panni sporchi, si concentrano gli sforzi per demolire la controparte e gli
avvocati possono mostrare il meglio e soprattutto il peggio di sé …
… Una vita insieme spazzata via, in questo giorno infausto, in circa 27
minuti: è il tempo processuale che occorre in media in Italia per emettere
provvedimenti provvisori, che come tutto il provvisorio italiano, diventeranno
di fatto definitivi. Puoi trovare giudici che dedicano un’ora e mezzo alla
decisione, altri tre quarti d’ora, e altri quindici minuti, o forse meno, per
questa fondamentale fase iniziale della separazione giudiziale…
… Questi cittadini, dopo aver assaggiato il gusto amaro di un procedimento
sgangherato, si sentono più soli e più delusi di prima. Avevano sperato che la
loro causa fosse qualcosa di più solenne, di più serio, di più umano, come
avrebbe certamente meritato la loro storia personale. Non una comune pratica da
sbrigare nel più breve tempo possibile…”
Ma … com’è possibile non parlare delle proprie emozioni, far finta che non
ci siano o relegarle in un angolo, quando nella fase separativa proprio
l’emotività, la rabbia, il dolore, il senso di delusione, di fallimento e di
frustrazione sono i sentimenti che dominano ed impediscono ogni forma di
comunicazione ed una interazione dialettica costruttiva nella coppia? Come si
fa a negoziare e/o ad accettare condizioni senza aver prima esternato i bisogni
e le emozioni che travolgono i cuori di una coppia che si separa? Solo
quando l’astio ed il livore si saranno placati tra le parti si potrà iniziare a
parlare, discutere, comunicare, negoziare.
In tale prospettiva, il Mediatore diventa un “traghettatore”, come lo definisce
icasticamente il Prof. Vittorio Cigoli[4], è una figura indispensabile
assurgendo a facilitatore per il recupero di una comunicazione tra le parti,
altrimenti irrimediabilmente compromessa, ma tanto necessaria, soprattutto
quando sono in gioco gli interessi e l’equilibrato sviluppo psico-fisico dei
figli. Spesso, sono proprio le insufficienti modalità di comunicazione
e l’assenza di consapevolezza di tale carenza, ad incentivare comportamenti
conflittuali che possono degenerare in forme croniche di non ascolto [5].
La Mediazione familiare si propone, dunque, non come percorso alternativo o
contrapposto a quello giudiziario, bensì come spazio privilegiato che
all’interno, o ancor prima dell’inizio di un processo, come quello della
separazione, consente alle coppie che vivono la fine della propria unione, di
esternare le proprie emozioni, il proprio dolore, la propria rabbia, il senso
di fallimento e di frustrazione che le pervade, di recuperare, quindi,
autostima e consapevolezza del proprio “io”, fiducia in se stessi e verso il
partner, attraverso la possibilità di “dirsi delle cose” e di ascoltarsi, senza
tema di essere sopraffatti dall’altro.
Solo così può superarsi la logica negativa del conflitto, che vede un
perdente ed un vincitore – logica alla quale il nostro sistema sociale ci ha da
sempre abituati a rispondere, e ristabilire la comunicazione e, quindi,
iniziare a discutere, confrontarsi, negoziare; in altri termini, gestire il
conflitto in maniera reciprocamente “vincente”.
E’ evidente che l’accordo negoziato, accettato, condiviso, scientemente
voluto dai componenti della coppia attraverso il percorso di Mediazione
familiare, nel quale ciascuno di essi è stato co-protagonista e co-artefice del
nuovo assetto negoziale che regolamenterà la vita propria e quella dei figli,
successivamente all’evento separativo, avrà maggiori probabilità di essere
mantenuto nel tempo, poiché elaborato con soddisfazione nel rispetto dei
bisogni e delle esigenze esternate, definite e condivise dalla
coppia stessa nella stanza di mediazione.
Ecco allora che la trama dei diritti e dei doveri coniugali e/o delle
responsabilità genitoriali che comporrà il contenuto del verbale di mediazione
e, dunque, dell’accordo finale che sarà allegato al ricorso congiunto, non
rappresenterà per la coppia un’aprioristica applicazione di norme giuridiche
avulsa dal vissuto personale della coppia e dal sostrato emotivo ed affettivo
connesso all’evento separativo.
La Mediazione familiare è strumento per una gestione positiva, propulsiva e
costruttiva del conflitto di coppia, rispetto al quale il Diritto costituisce
una cornice normativa.Si muove, dunque, su un rettilineo parallelo
a quello legale, comunque necessario ed indispensabile:l’Avvocato,
al quale le parti si rivolgono più frequentemente nel momento più acuto della
crisi, dopo aver raccolto le istanze del proprio Cliente, può consigliare un
percorso di Mediazione familiare, garantendo la sua assistenza durante lo
stesso per una consulenza legale ove richiesta, preclusa al Mediatore familiare,
in un’ottica di sinergica collaborazione tra le due figure professionali,
intervenendo, infine, nella fasesuccessiva della verifica
dell’accordo concluso dalla coppia all’esito del percorso mediativo.
La Mediazione familiare è una preziosa risorsa per la coppia: è
strumento di sostegno alle coppie travolte dalla vicenda separativa e dalla
congerie di sentimenti propri di questa fase; è, altresì, strumento di sostegno
alla genitorialità, rectius di attuazione di una effettiva
bi-genitorialità o responsabilità genitoriale condivisa, poiché è la stessa
coppia genitoriale che, attraverso il processo negoziale proprio del percorso
mediativo, può decidere tempi e modi di frequentazione dei comuni figli,
maturando la piena consapevolezza che dopo la fine di una relazione, coniugi o
compagni di vita non si è più, ma genitori si è e si rimane per sempre.
In altri termini, sono le parti personalmente che stabiliscono come
riempire di contenuto il diritto dei propri figli, affermato e riconosciuto
dalla normativa nazionale e sovranazionale[6], a “mantenere un
rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere
cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare
rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale”.
E’ un dato all’evidenza di tutti che proprio i figli finiscono per subire
assai spesso le conseguenze dei sentimenti di vendetta personale, di rabbia e
di dolore che investono la coppia nella fase patologica della propria
relazione.
La condizione più dolorosa per un figlio è quella di sentirsi conteso tra i
genitori in guerra, di non sentirsi ascoltato ma strumentalizzato per i fini
egoistici dei propri genitori, accecati dalla rabbia e dall’astio reciproco.
In casi siffatti, accade, purtroppo di frequente, che un genitore cerchi, e
costruisca, un vero e proprio rapporto di alleanza col figlio, “tirandolo”
dalla sua parte, mettendo in atto su di lui una subdola opera di
condizionamento psichico o di vera e propria manipolazione tesa alla
denigrazione dell’altro genitore ed al conseguente allontanamento del figlio,
che può arrivare fino al vero e proprio rifiuto, da parte di costui, del
genitore denigrato e della rete parentale ad esso legata (nonni, zii, cugini,
ecc.), in barba al tanto declamato “affido condiviso” ed in spregio al
diritto dei minori di mantenere rapporti equilibrati e significativi con
entrambi i genitori, con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale.
Nota a tutti è la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del
29.01.2013, con la quale l’Italia è stata condannata per non aver permesso ad
un padre separato di vedere con continuità la figlia dopo la separazione
dall’ex compagna, in violazione dell’art. 8 della Convenzione che garantisce il
rispetto della vita privata e familiare. I Giudici europei hanno sollecitato
l’Italia a dotarsi di strumenti efficaci per l’esecuzione dei provvedimenti dei
Giudici nazionali, che altrimenti rimangono lettera morta; strumenti che non
devono limitarsi ad assicurare che il bambino possa incontrare il suo genitore
o avere contatti con lui, ma devono essere adeguati: “le misure deputate a
riavvicinare il genitore con suo figlio devono essere attuate rapidamente,
perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle
relazioni tra il fanciullo e quelle dei genitori che non vive con lui”. Non
deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche.
Chiamati a prendersi cura del minore sono entrambi i genitori, anche in caso
di cessazione dell’unione coniugale o di fatto, in modo condiviso tra loro,
senza distinguere tra il genitore che partecipa della vita quotidiana del
figlio e quello che soddisfa esclusivamente le esigenze ludiche e che frequenta
prevalentemente nel tempo libero.
La ratio ispiratrice della legge sull’affido condiviso
(Legge n. 54/2006) risiede nella tutela del fondamentale diritto del minore ad
avere entrambi i genitori, ai quali viene attribuita una maggiore
responsabilizzazione nell’ottica di un’imperativa crescita equilibrata del
minore; è il diritto del minore ad avere la priorità sul diritto dei padri e
sul diritto delle madri, regola che non può subire eccezioni che non siano
giuridicamente fondate. In altri termini, l’affido condiviso non si pone a
tutela né del ruolo materno né del ruolo paterno.
I genitori separati, a cui il figlio sia stato affidato in modo condiviso
tra loro, hanno entrambi l’esercizio della potestà, ed in quanto chiamati allo
stesso modo alle proprie responsabilità genitoriali, sono tenuti entrambi ad
occuparsi del comune figlio, mediante la condivisione di uno stesso indirizzo
educativo; provvedendo, congiuntamente o secondo una concordata distribuzione
di compiti, ad assicurargli abbigliamento, calzature, cure mediche, libri e
materiale scolastico; interessandosi del suo rendimento a scuola e seguendolo
entrambi nello svolgimento dei compiti; dando ascolto ad eventuali bisogni ed
esigenze del figlio, compresa quella di dedicarsi ad attività ludico-ricreative
e/o sportive; adottando, infine, di comune accordo le decisioni più
importanti per la sua vita.
La condivisione, diversa dalla co-decisione propria dell’affidamento
congiunto[7], implica la possibilità per la coppia genitoriale di organizzare le
relazioni familiari secondo la propria volontà dispositiva, muovendo dal
necessario presupposto della fiducia nell’altro e del rispetto delle sue
decisioni.
A dire il vero, le formule stereotipate con le quali vengono regolamentate
dai Giudici le modalità attuative del pur dichiarato affido condiviso del
minore ai genitori, nei procedimenti di separazione personale, di
divorzio o in quelli che riguardano l’affidamento ed il mantenimento dei figli
nati fuori del matrimonio, appaiono essere le formule proprie del modello di affidamento
monogenitoriale, poiché il più delle volte viene individuato da un lato, il
genitore, definito “collocatario” che condivide di fatto la quotidianità del
figlio ed assume su di sé in modo prevalente, e talvolta esclusivo, anche le
responsabilità e gli oneri economici conseguenti, e dall’altro, il genitore non
convivente, che esercita un “diritto di visita” secondo una calendarizzazione
in giorni ed orari prestabiliti, la cui inosservanza è spesso causa di nuove
liti e di nuovi contrasti.
D’altra parte, i dati statistici registrano che nel nostro Paese l’affido
condiviso non supera di fatto il 5% dei casi, benché l’89% delle sentenze di
separazione stabilisca che il minore è affidato ad entrambi i genitori, senza
considerare, poi, che il più delle volte il minore mantiene rapporti
continuativi con gli ascendenti e solo con la rete parentale del genitore c.d.
collocatario.
Questo dato impone una riflessione, anche alla luce dei moniti che ci
giungono dai Giudici europei: è fin troppo evidente che nel nostro Paese non
sono adeguatamente valorizzati strumenti che, invece, potrebbero favorire
la concreta attuazione dell’affido condiviso, secondo il regime concepito ed
ideato dal Legislatore della Legge n. 54/2006, in funzione di un’effettiva
tutela dell’interesse superiore del minore, cui la Legge medesima si ispira.
Un valido ed efficace strumento in tal senso, è proprio la Mediazione
familiare che, come detto, superando la logica agonistica della conflittualità,
consente alla coppia di genitori di giungere, attraverso una terza persona
riconosciuta da ambedue imparziale, qual è appunto il mediatore, ad un accordo
condiviso sulla riorganizzazione delle proprie relazioni e, soprattutto, sulla
ristrutturazione del loro rapporto con i figli minori, regolamentandolo
di comune intesa in tutti i suoi aspetti, dal tempo che ciascun genitore potrà
trascorrere col minore alle esperienze di vita quotidiana che potrà condividere
col medesimo, fino ad un’equa ridistribuzione di compiti e di responsabilità,
dando concreta sostanza di contenuti al tanto declamato “affido condiviso”.
Da questo punto di vista, la migliore garanzia per i figli non è tanto
rappresentata dal raggiungimento di un accordo che eviti il protrarsi della
conflittualità, quanto soprattutto dall’essere collocati al di fuori dell’area
dei possibili strumenti di sopraffazione reciproca dei genitori e poter
mantenere, in tal modo, un rapporto equilibrato con entrambi, senza essere
“ostaggio” di alcuno di essi.
Non si chiede, infatti, che i genitori smettano di litigare, ma che
sappiano litigare e lo facciano nel modo giusto, tenendo presente, come afferma
lo psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim, che “il modo in cui il genitore
vive un evento cambia tutto per il bambino, perché è in base al vissuto del
genitore che egli si crea la propria interpretazione del mondo”.
La Mediazione familiare quale strumento di mediazione dei conflitti nella
famiglia e nella coppia in crisi può e deve diventare una nuova filosofia di
vita, da sposare e fare propria in via preventiva ad ogni lite giudiziaria, che
il più delle volte inasprisce il conflitto e distrugge in modo irreversibile le
relazioni affettive, a discapito, ancora una volta, dei figli.
Tale strumento va valorizzato anzitutto in sede legislativa, poiché la
Mediazione familiare, pur essendo una realtà nel nostro Paese da circa
trent’anni, non ha ancora trovato cittadinanza nel nostro ordinamento
attraverso un impianto normativo organico, che definisca la Mediazione
familiare, regolamenti ed attribuisca autonoma dignità alla figura
professionale del Mediatore familiare e ne disciplini l’ambito di operatività.
Non sono mancati, invero, disegni o proposte di legge in materia, elaborate
su sollecitazione di singole Associazioni di categoria in Mediazione
familiare, ma nessuno di esse, sino ad oggi, è stato tradotta in legge.
L’auspicio è che anche il Legislatore si renda finalmente consapevole di
quale preziosa risorsa rappresenti la Mediazione familiare e intervenga a
colmare al più presto una lacuna normativa oramai non più accettabile.
[1] MARTELLO M., L’arte del mediatore dei conflitti, Giuffrè,
Milano, 2008, 62.
[2] CANEVELLI F. – LUCARDI M., La Mediazione Familiare. Dalla
rottura del legame al riconoscimento dell’altro, Bollati Boringhieri,
Torino, 2008, 197.
[3] GASSANI G. E., I Perplessi Sposi, Aliberti Editore, Roma,
2011, 19 ss.
[4] Professore Emerito e docente di Psicologia Clinica dei Legami Familiari
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È Direttore dell’Alta
Scuola di Psicologia “A. Gemelli”, dove dirige i Master Universitari
di Mediazione Familiare e Comunitaria e di Clinica delle relazioni di Coppia.
Dirige la collana “Psicologia sociale e clinica familiare” della Franco Angeli
Editore e fa parte di numerosi comitati editoriali di riviste scientifiche.
[5] SPADARO G.-CHIARAVALLOTI S., L’interesse del minore nella
Mediazione familiare, Giuffrè, Milano, 2012, 168
[6] In particolare, l’art. 9, comma 3, della Convenzione Internazionale sui
Diritti dell’Infanzia del 20.11.1989 (ratificata dall’Italia con L. n. 176 del
27.05.1991 e dichiarata immediatamente precettiva nel nostro ordinamento dalla
Corte Costituzionale con sentenza n. 1 del 16.01.2002), impone a tutti gli
Stati aderenti il rispetto del fondamentale “diritto del fanciullo separato
da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolarmente rapporti
personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia
contrario all’interesse preminente del fanciullo”; l’art. 24, comma 3,
della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il
7 dicembre del 2000, statuisce: “Ogni bambino ha diritto di intrattenere
regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo
qualora ciò sia contrario al suo interesse.”
[7] La formula dell’affidamento congiunto è stato adottato, prima
dell’introduzione dell’affido condiviso, solo nei casi di lieve o inesistente
conflittualità di coppia, poiché basata sul consenso unanime dei genitori su
tutte le decisioni riguardanti i figli, sia di ordinaria che di straordinaria
amministrazione.
Il 5 febbraio 2014, presso la Sala Consigli della Pontificia Università Lateranense in Roma, si è tenuto un prestigioso tavolo di studio a cui hanno partecipato le più importanti associazioni di categoria in ambito di mediazione familiare, quali l’Associazione Italiana Mediatori Familiari (AI.Me.F.), la Società Italiana di Mediazione Familiare (S.I.Me.F.), l’Associazione Internazionale Mediatori Sistemici (A.I.M.S.), l’Associazione Europea di Mediazione Familiare (A.E.Me.F.), l’Associazione Nazionale Avvocati Mediatori Familiari (A.N.A.Me.F.), l’Istituto Nazionale di Mediazione Familiare (I.NA.ME.F.) e il Forum Europeo per la Formazione e ricerca in Mediazione Familiare.
L’obiettivo che si è inteso perseguire è stato quello di elaborare una proposta di legge che riconosca piena ed autonoma dignità giuridica alla figura professionale del Mediatore Familiare e ne regolamenti l’operatività.
A presenziare i lavori il Prof. Michele RIONDINO, titolare della cattedra di Diritto di Famiglia e di Diritto Canonico presso la medesima Università, l’Avv. Emanuela PALAMA’, coordinatrice del dipartimento di Mediazione Familiare del Forum Nazionale dei Mediatori e dell’Osservatorio sull’uso dei sistemi ADR, e la Dott.ssa Irene GIONFRIDDO, in qualità di portavoce del Forum Nazionale dei Mediatori. L’incoraggiante riuscita di questo primo incontro ha spronato i partecipanti alla prosecuzione dei lavori con ulteriori sessioni del tavolo di studio, sino ad arrivare alla stesura di un testo di legge completo.
Risale a pochi giorni fa la notizia di un’altra drammatica storia di un figlio conteso tra due genitori, quella del piccolo Leo di Parma, di soli otto anni, una delle tante vittime delle conflittuali vicende separative dei genitori.
Ebbene sì! Perché sono proprio i figli a subire assai spesso le
conseguenze dei sentimenti di vendetta personale, di rabbia e di dolore che
investono la coppia nella fase patologica della propria relazione, sì da
renderla totalmente sorda ai bisogni reciproci, ma soprattutto dei propri
figli, che diventano oggetto di una inutile quanto deprecabile contesa.
“Il lessico familiare è un lessico di pace”, ha affermato
Papa Francesco durante l’udienza di inizio anno del 13 gennaio scorso, con il
Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ma – ha aggiunto – “purtroppo
spesso ciò non accade, perché aumenta il numero delle famiglie divise e
lacerate”. Da qui l’appello del Papa alle Istituzioni per la famiglia: ”Si rendono necessarie
politiche appropriate che sostengano, favoriscano e consolidino la famiglia”.
E cosa può fare lo Stato per la famiglia?
Per rispondere a questa domanda, bisogna intendersi anzitutto
sul concetto di “famiglia”, poiché essa non va identificata esclusivamente con
la famiglia unita. E’ importante accogliere anche l’idea di famiglia
“disunita”, in cui mamma e papà non sono più legati da un progetto di vita
comune, ma restano pur sempre genitori e tali devono rimanere nel tempo, perché
entrambi figure di riferimento, ugualmente importanti, per la serena crescita
psico-fisica dei figli.
La condizione più dolorosa per un figlio è quella di sentirsi
conteso tra i genitori in lite, di non sentirsi ascoltato ma strumentalizzato
per i fini egoistici dei propri genitori, accecati dalla rabbia e dall’astio
reciproco.
In casi siffatti, accade, purtroppo di frequente, che un
genitore cerchi, e costruisca, un vero e proprio rapporto di alleanza col
figlio, “tirandolo” dalla sua parte, mettendo in atto su di lui una subdola
opera di condizionamento psichico o di vera e propria manipolazione tesa alla
denigrazione dell’altro genitore ed al conseguente allontanamento del figlio,
che può arrivare fino al vero e proprio rifiuto, da parte di costui, del
genitore denigrato. Ed ecco che, grazie a questa sottile attività persuasiva,
assai spesso accompagnata da false denunce e querele volte a rincarare la dose
di discredito creata intorno al genitore denigrato, mamma o papà, agli occhi
del bimbo conteso, diventa cattivo! Correlativamente hanno inizio le ardue
imprese – dalle traversate sul territorio nazionale ed all’estero allo sciopero
della fame o a dimostrazioni similari-, messe in atto dal genitore denigrato ed
allontanato per recuperare il rapporto col proprio figlio.
E lo Stato cosa fa? Quale politica di sostegno appronta a favore
delle famiglie disunite a tutela delle relazioni familiari e della tanto
decantata bi-genitorialità?
Nota a tutti è la sentenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo del 29.01.2013, con la quale l’Italia è stata condannata per non aver
permesso ad un padre separato di vedere con continuità la figlia dopo la
separazione dall’ex compagna, in violazione dell’art. 8 della Convenzione che
garantisce il rispetto della vita privata e familiare. I Giudici europei
hanno sollecitato l’Italia a dotarsi di strumenti efficaci per l’esecuzione dei
provvedimenti dei Giudici nazionali, che altrimenti rimangono lettera morta;
strumenti che non devono limitarsi ad assicurare che il bambino possa
incontrare il suo genitore o avere contatti con lui, ma devono essere
adeguati: “Le
misure deputate a riavvicinare il genitore con suo figlio devono
essere attuate rapidamente,
perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze
irrimediabili sulle relazionitra il fanciullo e quello dei
genitori che non vive con lui”. Non deve, dunque, trattarsi di
misure stereotipate ed automatiche.
E recente è anche un’altra condanna dell’Italia, quella irrogata
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza del 7 gennaio scorso,
per aver violato il diritto di due coniugi milanesi di poter dare al figlio
nato dalla loro unione, per scelta condivisa, il solo cognome materno. Anche in
tal caso è stata rilevata la violazione degli art. 8 e 14 (divieto di
discriminazione) della CEDU.
L’Italia non è ancora, per alcuni aspetti, al passo con i tempi
che cambiano: si pensi alle coppie di fatto, che non hanno ancora un
riconoscimento normativo dei propri diritti, ma si affidano all’opera esegetica
ed evolutiva della giurisprudenza di merito e di legittimità; si pensi ancora alla
stessa Mediazione familiare, che, pur essendo stata introdotta nel nostro Paese
da oltre vent’anni, non ha trovato cittadinanza nel nostro ordinamento
attraverso un impianto normativo organico e ben definito.
Non sono mancati, invero, recenti interventi legislativi nel
diritto di famiglia: il pensiero corre subito alla legge n. 219 del 10 dicembre
2012 ed al successivo d.lgs. n. 154 del 28 dicembre 2013, che hanno segnato una
svolta epocale in materia di filiazione, riconoscendo a tutti i figli un uguale status ed una medesima identità
giuridica, a prescindere dall’esistenza di vincoli coniugali e non, stabili o
occasionali tra i genitori; interventi normativi che, dopo la legge sull’affido
condiviso (L. n. 54 dell’8 febbraio 2006), hanno valorizzato il significato di responsabilità genitoriale e di cura
del minore, il quale, secondo i nuovi dettami, assume nella famiglia, non
più o non soltanto il ruolo di oggetto di protezione, ma piuttosto di soggetto
di diritti, primo fra tutti il diritto ad avere un rapporto costante,
continuato e considerevole con entrambi i genitori, anche in seguito alla crisi
del rapporto di coppia, ed a ricevere dai medesimi cura, educazione, istruzione
ed assistenza morale, in attuazione del precetto di cui all’art. 30 della Costituzione
e dell’art. 9, comma 3, della Convenzione Internazionale sui Diritti
dell’Infanzia del 20.11.1989 (ratificata dall’Italia con L. n. 176 del
27.05.1991 e dichiarata immediatamente precettiva nel nostro ordinamento dalla
Corte Costituzionale con sentenza n. 1 del 16.01.2002), che impone a tutti gli
Stati aderenti il rispetto del fondamentale “diritto del fanciullo separato
da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolarmente rapporti
personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia
contrario all’interesse preminente del fanciullo”.
Cosa significa “cura”? Prendersi cura non ha un significato univoco. Instaurare una relazione fondata sulla cura dell’altro non vuol dire soggiogarlo, creare un legame di dipendenza. Prendersi cura significa innanzitutto riconoscere, stimolare e valorizzare lo sviluppo del suo essere persona, secondo la progettualità che essa contiene e che a priori non è conosciuta neanche dal soggetto stesso, ancor meno da chi la osserva[1].
Chiamati a prendersi cura del minore sono entrambi i genitori,
anche in caso di cessazione dell’unione coniugale o di fatto, in modo condiviso
tra loro, senza distinguere tra il genitore che partecipa della vita quotidiana
del figlio e quello che soddisfa esclusivamente le esigenze ludiche e che
frequenta prevalentemente nel tempo libero.
La ratio ispiratrice della legge sull’affido condiviso risiede nella tutela del fondamentale diritto del minore ad avere entrambi i genitori, ai quali viene attribuita una maggiore responsabilizzazione nell’ottica di un’imperativa crescita equilibrata del minore; è il diritto del minore ad avere la priorità sul diritto dei padri e sul diritto delle madri, regola che non può subire eccezioni che non siano giuridicamente fondate. In altri termini, l’affido condiviso non si pone a tutela né del ruolo materno né del ruolo paterno[2].
I genitori separati, a cui il figlio sia stato affidato in modo
condiviso tra loro, hanno entrambi l’esercizio della potestà, ed in quanto
chiamati allo stesso modo alle proprie responsabilità genitoriali, sono tenuti
entrambi ad occuparsi del comune figlio, mediante la condivisione di uno stesso
indirizzo educativo; provvedendo, congiuntamente o secondo una concordata
distribuzione di compiti, ad assicurargli abbigliamento, calzature, cure
mediche, libri e materiale scolastico; interessandosi del suo rendimento a
scuola e seguendolo entrambi nello svolgimento dei compiti; dando ascolto ad
eventuali bisogni ed esigenze del figlio, compresa quella di dedicarsi ad
attività ludico-ricreative e/o sportive; adottando, infine, di comune
accordo le decisioni più importanti per la sua vita.
La condivisione, diversa dalla co-decisione propria dell’affidamento congiunto[3], implica la possibilità per la coppia genitoriale di organizzare le relazioni familiari secondo la propria volontà dispositiva, muovendo dal necessario presupposto della fiducia nell’altro e del rispetto delle sue decisioni.
A dire il vero, le formule stereotipate con le quali vengono
regolamentate dai Giudici le modalità attuative del pur dichiarato affido
condiviso del minore ai genitori, nei procedimenti di separazione personale,
di divorzio o in quelli che riguardano l’affidamento ed il mantenimento dei
figli nati fuori del matrimonio, appaiono essere le formule proprie del modello
di affidamento monogenitoriale, poiché il più delle volte viene individuato da
un lato, il genitore, definito “collocatario” che condivide di fatto la
quotidianità del figlio ed assume su di sé in modo prevalente, e talvolta
esclusivo, anche le responsabilità e gli oneri economici conseguenti, e
dall’altro, il genitore non convivente, che esercita un “diritto di visita”
secondo una calendarizzazione in giorni ed orari prestabiliti, la cui
inosservanza è spesso causa di nuove liti e di nuovi contrasti.
La giurisprudenza è orientata nel ritenere che neppure
un’elevata conflittualità tra i genitori possa essere di ostacolo all’affido
condiviso, attesa la finalità primaria della legge di salvaguardare il diritto
del minore alla bigenitorialità e, quindi, la continuità del suo rapporto con
entrambi i genitori a prescindere dal fatto che questi siano in pieno conflitto
tra di loro. In tal senso Cass.
civ., sez. I, n. 5108del
29.03.2012, ha affermato che: ‘‘… la mera conflittualità
esistente tra i coniugi, che spesso connota i procedimenti separatizi, non
preclude il ricorso a tale regime preferenziale (di affidamento condiviso) solo
se si mantenga nei limiti di un tollerabile disagio per la prole; assume,
invece, connotati ostativi alla relativa applicazione ove si esprima in forme
atte ad alterare e a porre in serio pericolo l’equilibrio e lo sviluppo psicofisico
dei figli e, dunque, tali da pregiudicare il loro superiore interesse…’’;
ed ancora, Cass. civ. Sez. I,
n. 1777 dell’8.02.2012, ,
secondo cui “Corollario di tale diritto è la prioritaria valutazione, da
parte del giudice, della possibilità che il figlio minore sia affidato ad
entrambi i genitori, restando l’affidamento monogenitoriale limitato al caso
residuale in cui il giudice ritenga, con provvedimento motivato, che
l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore. In tal senso,
la sola conflittualità esistente tra i genitori non è motivo sufficiente per
ritenere contrario all’interesse dei figli il loro affidamento ad entrambi,
atteso che far dipendere la scelta del regime di affidamento, esclusivo o
condiviso, dal più o meno armonico rapporto esistente tra i genitori separati,
significherebbe subordinare il primario diritto dei figli alla mera qualità dei
rapporti tra i genitori, i quali potrebbero addirittura strumentalizzare il
loro conflitto al fine di acquisire un maggiore potere di reciproca
interdizione alla piena relazione morale e materiale di ciascuno con la prole,
vanificando di fatto il fondamentale diritto dei minori a vivere da figli di
entrambe le figure parentali. L’ostacolo alla bigenitorialità va, pertanto,
ravvisato e motivato, ove esistente, esclusivamente nell’ambito del rapporto
diretto tra il figlio e il singolo genitore, che configuri una situazione di
pregiudizio o anche di mero disagio per lo stesso minore tale da giustificare
la limitazione del medesimo rapporto. Nella specie, pertanto, la forte
situazione di conflittualità intercorrente tra gli ex coniugi, a fronte del
legame dei minori mostrato in egual modo per entrambi i genitori, non
giustifica un affidamento esclusivo dei medesimi”.
Dunque, è il superiore interesse del minore a dover sempre
orientare il Giudice nelle proprie decisioni in materia di affidamento,
valutando se la conflittualità che esiste nella coppia permetta un esercizio
congiunto della potestà oppure se sia meglio assegnare a padre e madre compiti
distinti rispetto ai figli, disponendo, solo quale extrema ratio, l’affidamento
monogenitoriale.
Il d.lgs. n. 154/2013, in attuazione della delega contenuta
nell’art. 2 della legge n. 219/2012 (per la revisione delle disposizioni
vigenti in materia di filiazione), ha trasfuso il contenuto degli artt. 155
bis, ter, quater, quinquies e sexies, del codice civile nei nuovi artt. 337
bis, ter, quater, quinquies, sexies, septies ed octies c.c., in vigore dal 7
febbraio 2014.
In particolare, l’art. 337 ter prevede che nei casi di
separazione, divorzio o nei procedimenti che riguardano i figli nati fuori del
matrimonio, i genitori debbano adottare di comune accordo, oltre alle decisioni
per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute, anche quella
inerente alla scelta della residenza abituale e che, in caso di disaccordo, la
decisione è rimessa al Giudice.
C’è chi ha ritenuto questo dato normativo allarmante poichè
metterebbe a rischio l’affido condiviso, attraverso la paventata introduzione
di quella distinzione, che la L. n. 54/2006 ha inteso eliminare, tra un
genitore prevalente che dovrebbe provvedere a tutti i bisogni del figlio e
l’altro che verrebbe escluso.
Personalmente, ritengo che possa fornirsi una diversa chiave di
lettura, in considerazione della circostanza che l’affido condiviso è tale, non
in base alla residenza del minore, ma ai tempi che quest’ultimo trascorre con i
genitori. In altri termini, la scelta della residenza abituale non coincide
necessariamente con i tempi che il minore condividerà abitualmente con ciascun
genitore.
Del resto, il d. lgs. n. 154/2013 prevede espressamente la
scelta della residenza abituale da parte di entrambi i genitori, anche quando
sono in accordo (ex art. 316 c.c., come novellato dall’art. 39 del d.lgs.
citato).
Occorre riflettere, d’altra parte, che se, pur a distanza di
otto anni dall’entrata in vigore della L. n. 54/2006, l’affido condiviso non
supera di fatto il 5% dei casi nel nostro Paese, benché l’89% delle sentenze di
separazione stabilisca che il minore è affidato ad entrambi i genitori, ciò è
imputabile, evidentemente, alla mancata valorizzazione di strumenti che,
invece, potrebbero favorire la concreta attuazione dell’affido condiviso,
secondo il regime concepito ed ideato dal Legislatore del 2006.
Un valido ed efficace strumento in tal senso, è proprio la Mediazione familiare che è mediazione dei conflitti, “uno strumento educativo e relazionale di facilitazione, sia nell’apprendimento di modalità per la composizione creativa e costruttiva dei conflitti, sia nel recupero delle capacità relazionali di ognuno. Nella mediazione infatti non esiste un «perdente» ed un «vincitore» come nella logica negativa del conflitto alla quale il nostro sistema sociale ci ha da sempre abituati a rispondere, ma esistono altri tipi di risposte. Facilitare l’apprendimento di modalità altre di relazione insieme al recupero di abilità relazionali, conduce ambedue le parti a comporre il conflitto in maniera reciprocamente «vincente»”[4].
In altri termini, nello spazio neutro della mediazione familiare
le parti, attraverso una terza persona riconosciuta da ambedue imparziale, qual
è appunto il mediatore, giungono ad un accordo condiviso sulla riorganizzazione
delle proprie relazioni e, soprattutto, sulla ristrutturazione del loro
rapporto con i figli minori, regolamentandolo di comune accordo in tutti
i suoi aspetti, dal tempo che ciascun genitore può trascorrere col minore alle
esperienze di vita quotidiana che può condividere col medesimo, fino ad un’equa
ridistribuzione di compiti e di responsabilità, dando concreta sostanza di
contenuti al tanto declamato “affido condiviso”.
Da questo punto di vista, la migliore garanzia per i figli non è
tanto rappresentata dal raggiungimento di un accordo che eviti il protrarsi
della conflittualità, quanto soprattutto dall’essere collocati al di fuori
dell’area dei possibili strumenti di sopraffazione reciproca dei genitori e
poter mantenere, in tal modo, un rapporto equilibrato con entrambi, senza
essere “ostaggio” di alcuno di essi.
La Mediazione familiare quale strumento di mediazione dei
conflitti nella famiglia e nella coppia in crisi può e deve diventare una nuova
filosofia di vita, da sposare e fare propria in via preventiva ad ogni lite
giudiziaria, che il più delle volte inasprisce il conflitto e distrugge in modo
irreversibile le relazioni affettive, a discapito, ancora una volta, dei figli.
Animato da questo profondo convincimento, il Dipartimento di Mediazione familiare del Forum Nazionale dei Mediatori e dell’Osservatorio sull’uso dei sistemi ADR sta lavorando attivamente, in sinergia con le principali Associazioni di mediazione familiare maggiormente rappresentative a livello nazionale, su una proposta di legge in materia, con l’auspicio di sensibilizzare le Istituzioni a dare cittadinanza nel nostro sistema ordinamentale ad una preziosa risorsa per la famiglia.
[1] SPADARO G. – CHIARAVALLOTI S., L’interesse del minore nella mediazione familiare, Giuffrè, Milano 2012, 161.
[3] La formula dell’affidamento congiunto è stato adottato, prima dell’introduzione dell’affido condiviso, solo nei casi di lieve o inesistente conflittualità di coppia, poiché basata sul consenso unanime dei genitori su tutte le decisioni riguardanti i figli, sia di ordinaria che di straordinaria amministrazione.
“L’Albo nazionale dei Mediatori familiari: riflessioni e proposte de iure condendo”
Intervento dell’Avv. Emanuela Palama’
«La potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle “professioni” deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera di singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale» (sentenze n. 153 e n. 424 del 2006, n. 57 del 2007, n. 138 e n. 328 del 2009) … la «istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno già, di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale» (sentenze n. 93 del 2008, n. 138 e n. 328 del 2009). Ora, la legislazione statale, con l’art. 155-sexies del codice civile, aggiunto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, ha soltanto accennato alla attività di mediazione familiare, senza prevedere alcuna specifica professione, stabilendo che «qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli», ma, a tutt’oggi, non ha introdotto la figura professionale del mediatore familiare, né stabilito i requisiti per l’esercizio dell’attività”: con questa motivazione la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 131 del 15 aprile 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, comma 3, Cost., degli artt. 1, comma II, 3, 4 e 6 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26 (Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare); nonché, dell’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 27 (Modifiche alla deliberazione legislativa approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 10 dicembre 2008, concernente “Norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare”) e, in via consequenziale, degli artt. 1, comma I, 2, 5, 7 e 8 della legge della Regione Lazio 24 dicembre 2008, n. 26, ossia di una serie di disposizioni normative formulate dalla Regione Lazio afferenti la definizione e la disciplina della figura professionale del Mediatore familiare nonché l’istituzione, presso l’Assessorato regionale competente in materia di politiche sociali, dell’Elenco regionale dei Mediatori familiari, individuando analiticamente i requisiti per iscriversi al predetto elenco.
Al di là delle argomentazioni che scandiscono l’iter
logico-giuridico della pronuncia di incostituzionalità della Corte
Costituzionale, fa riflettere come sempre più avvertita sia l’esigenza di
normare la mediazione familiare.
Come noto, da circa trent’anni la Mediazione familiare
rappresenta una realtà operativa anche nel nostro Paese -sebbene ancora poco o
non correttamente conosciuta ed ancora scarsamente praticata-diffusa
prevalentemente grazie all’attività divulgativa e formativa posta in essere da
Associazioni private – tra le quali, le più note storicamente: SIMEF (Società
Italiana di Mediazione Familiare)[1],
AIMS (Associazione Italiana Mediatori Sistemici)[2],
AIMEF (Associazione Italiana Mediatori Familiari)[3].
Il Legislatore italiano ha lasciato, invece, un grave vuoto normativo in
materia, non disciplinando la Mediazione familiare né definendo la figura, le
competenze, il ruolo professionale e formativo del Mediatore familiare.
Per compiutezza espositiva, corre l’obbligo precisare che con
l’emanazione della L. 14 gennaio 2013, n. 4 (pubblicata in G.U. n. 22 del
26.01.13), recante “Disposizioni in materia di professioni non organizzate”,
è stata introdotta una disciplina della Professione del Mediatore familiare,
ancorché di carattere generico e residuale rispetto alle specifiche normative
che regolamentano le Professioni organizzate in Ordini o Collegi: ai sensi
dell’art. 1, infatti, la legge citata si applica ad “ogni attività
economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a
favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro
intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle
attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi
dell’art. 2229 del codice civile …”.
Si tratta, tuttavia, di una normativa applicabile a tutte le
professioni non organizzate in ordini o collegi (tra le quali, certamente, può
ricondursi quella del Mediatore familiare), che ha avuto il pregio di colmare
una lacuna esistente nella regolamentazione delle professioni non organizzate,
introducendo il principio del libero esercizio della professione fondato
sull’autonomia, sulle competenze e sull’indipendenza di giudizio intellettuale
e tecnica del professionista; consentendo al professionista di scegliere la forma
(individuale, associata, societaria o nella forma di lavoro dipendente),
attraverso cui esercitare la propria professione; riconoscendo ai
professionisti la possibilità di costituire associazioni professionali (con
natura privatistica, fondate su base volontaria e senza alcun vincolo di
rappresentanza esclusiva) con il fine di valorizzare le competenze degli
associati, diffondere tra essi il rispetto di regole deontologiche, favorendo
la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza.
In particolare, la Legge n. 4/2013 prevede che le associazioni
possano costituire forme aggregative che rappresentano le associazioni
aderenti, agiscano in piena indipendenza ed imparzialità e siano soggetti
autonomi rispetto alle associazioni professionali che le compongono, con
funzioni di promozione e qualificazione delle attività professionali che
rappresentano, nonché di divulgazione delle informazioni e delle conoscenze ad
esse connesse e di rappresentanza delle istanze comuni nelle sedi politiche e
istituzionali.
Tuttavia, una disciplina di carattere generale e genericamente
applicabile a tutte le attività non riconducibili alle professioni organizzate
in ordini o collegi, non basta!
La Mediazione familiare abbisogna di un intervento normativo ad hoc, che disciplini in modo
trasversale tutti gli aspetti inerenti all’esercizio della professione del
Mediatore familiare, dall’accesso alla formazione, dalla natura e dal tipo di
percorso formativo alle competenze specialistiche richieste come requisiti
indispensabili per l’esercizio della professione, dalla previsione di un Codice
deontologico e di un Tariffario all’istituzione di un Albo nazionale dei
Mediatori familiari.
L’unica norma della L. 4/2013 che fa riferimento alla tenuta di
un “elenco degli iscritti aggiornato annualmente” è l’art. 5, comma 2,
nell’ipotesi in cui la professione sia esercitata in forma associata.
In proposito, si segnala che l’AIMEF è stata la prima
organizzazione di Mediatori familiari iscritta nell’elenco delle Associazioni
professionali previsto dall’art. 2, comma 7, della L. n. 4/2013, pubblicato dal
Ministero dello sviluppo economico sul proprio sito internet www.sviluppoeconomico.gov.it,
essendo in possesso di tutti i requisiti previsti per il rilascio
dell’attestato di qualità dei propri iscritti. Inoltre, dal 2002 l’AIMEF
risulta iscritta nell’elenco speciale del C.N.E.L. (Consiglio Nazionale
dell’Economia e del Lavoro, con il n.33/03) e pertanto i suoi associati costituiscono
albo nazionale privato dei Mediatori familiari e sono tutti coperti da RC
professionale come Mediatori familiari.
L’inserimento del singolo professionista in tale elenco impone
la preliminare valutazione, da parte dell’AIMEF, del possesso, all’atto
dell’iscrizione dell’aspirante socio, di tutti i requisiti di competenza,
preparazione teorica e pratica e di aggiornamento professionale richiesti ai
fini della iscrizione medesima. Ciò a garanzia del rispetto degli standard di
qualità professionale del Mediatore familiare, certificati dall’AIMEF, conformi
agli standard di formazione riconosciuti dal Forum Europeo di Formazione e
ricerca sulla Mediazione Familiare[4].
Naturalmente, l’elenco tenuto dall’AIMEF non può considerarsi
esaustivo, non raccogliendo i nominativi di tutti i professionisti che abbiano
conseguito il titolo di Mediatore familiare, ma solo dei propri associati, la
cui qualità sia stata valutata e certificata dall’associazione medesima.
Tuttavia, poiché i corsi di formazione organizzati sul
territorio nazionale sono svariati e non tutti riconosciuti ed accreditati
dall’AIMEF o dal Forum Europeo di Formazione e ricerca sulla Mediazione
Familiare o da altri Enti e/o Associazioni accreditate, si può correre il
rischio concreto di rivolgersi ad un professionista, che non sia socio AIMEF e
non iscritto nel relativo elenco, poco qualificato o con scarsa esperienza
professionale, non esistendo, né essendo previsto ad oggi, un Albo nazionale
dei Mediatori familiari, l’iscrizione al quale sia condizionata al possesso di
determinati requisiti, sul modello dell’elenco dei soci AIMEF.
Inoltre, poiché l’individuazione delle figure professionali è
riservata, per il suo carattere necessariamente unitario allo Stato, ex art.
117 Cost., in linea con quanto argomentato e deciso dalla Corte Costituzionale
con la citata sentenza n. 131 del 15 aprile 2010, in difetto di una specifica
previsione e regolamentazione delle figura e del profilo professionale e
formativo del Mediatore familiare, a livello di normazione nazionale, questi va
qualificato attingendo al bacino degli istituti vigenti.
In particolare, il problema si pone nella fase
endoprocedimentale, poichè il dato normativo di cui all’art. 155 sexies, comma
2, c.c. (introdotto dalla L. n. 54/2006 sull’affido condiviso), parla di
“esperti” che “tentino una mediazione” tra i coniugi e non di “mediatori
familiari”, in tal modo finendo per ricondurre la figura a quelle già esistenti
senza creazione ex novo di una nuova professionalità, almeno
ai fini processuali.
Ed infatti, dal dato normativo – invero alquanto scarno – emerge
che la figura deputata a “mediare” trai coniugi è dotata di particolari
competenze professionali ed assume, di fatto, la qualità di ausiliario del
giudice. Diversi i referenti ermeneutici di siffatta conclusione:
1) La disposizione ex art. 155-sexies c.c. è rubricata “poteri
del giudice ed ascolto del minore”: la scelta discrezionale di far ricorso alla
mediazione va inscritta, pertanto, nel novero dei “nuovi poteri” del Giudicante
e un simile inquadramento sistematico richiama immediatamente la facoltà (rectius:
potere) di ricorrere all’assistenza di organi d’ausilio. Si tratta, cioè, di
uno di quei “casi previsti dalla legge” in cui “il giudice … si può fare
assistere da esperti in una determinata arte o professione e, in generale, da
persona idonea al compimento di atti che non è in grado di compiere da sé solo”
(art. 68 c.p.c., rubricato, per l’appunto, “altri ausiliari”).
2) Il dato letterale depone nel senso di uno stretto rapporto
tra esperti e giudice, potendosi reputare che i primi agiscano come una vera e
propria longa manus del Giudicante: ed, infatti, la
disposizione adotta il verbo “avvalendosi”. Non è possibile, pertanto, non
ricondurre il mediatore all’art. 68 c.p.c. poiché dalla legge definito, per
l’appunto, “esperto” che tenta la mediazione e non tout court “mediatore”[5].
Pertanto, muovendo dalla considerazione che nulla è disposto in
merito a chi siano gli esperti ed in ordine alle modalità con le quali il
magistrato, le parti o i loro avvocati possano accedere alle prestazioni dei
medesimi nel corso del procedimento giudiziario; che per coinvolgere il
mediatore familiare nel corso del giudizio nei Tribunali si attuano prassi
differenziate: questi viene nominato, ora CTU ex art. 61 c.p.c., ora ausiliario
ex art. 68 c.p.c., ora senza alcun riferimento specifico; che tale modalità
operativa genera confusione circa la specificità dell’intervento mediativo
nell’ambito del processo di separazione e di divorzio, la stessa AIMEF, in data
10 settembre 2007, ha adottato a Milano le c.d. “linee guida operative” per
l’accesso alla Mediazione familiare nel corso del procedimento di separazione e
divorzio[6],
al fine di meglio precisare le competenze ed il profilo formativo e
professionale del Mediatore familiare.
Alla luce delle considerazioni innanzi svolte, è agevole
concludere che per riconoscere l’autonomia della figura professionale del
Mediatore familiare e garantirne la qualità e la competenza, in una prospettiva de iure condendo, sarà
necessario prevedere l’istituzione
di un Albo nazionale dei Mediatori familiari presso il Ministero della
Giustizia, “punto fondamentale dal quale solo può iniziarsi ad impostare un
servizio esclusivo ed autonomo da ogni altro, gestito da specialisti del
settore, con una formazione ad
hoc, distinta da quello di qualunque altro professionista”[7]:
il Mediatore familiare, infatti, deve essere legittimato a livello
istituzionale, normativo e giuridico per la specificità del ruolo che
rappresenta e non per l’appartenenza in sé ad altre categorie professionali.
Non sono mancati, invero, proposte o disegni di legge, che,
nella prospettiva di normare la Mediazione familiare, hanno previsto, tra
l’altro, l’istituzione di un Albo nazionale.
Si cita, a titolo esemplificativo, la proposta di legge n. 3868,
presentata il 17 novembre 2010 dal Deputato D’Ippolito Vitale, il cui art. 7
prevede l’istituzione di un Albo nazionale dei Mediatori familiari al quale
siano tenuti ad iscriversi coloro che sono in possesso di laurea specialistica
in discipline pedagogiche, psicologiche, sociali o giuridiche nonché di idoneo
titolo universitario, quale master, specializzazione o perfezionamento di
durata biennale di Mediatore familiare, nonché chi – in possesso dei predetti
requisiti – alla data di entrata in vigore della legge abbia svolto per almeno
due anni, nel quinquennio antecedente l’entrata in vigore della legge, attività
di mediazione familiare da comprovare sulla base di idonea documentazione.
E’ indubbio che l’iscrizione all’Albo nazionale imponga la
verifica dell’avvenuto completamento, da parte del singolo, del relativo
percorso formativo e, quindi, dell’avvenuto conseguimento del titolo abilitante
all’esercizio della professione di Mediatore familiare.
In che cosa dovrà consistere il percorso formativo; a quali
soggetti e/o professionalità consentire l’accesso alla professione di Mediatore
familiare; a quale Ente, Organismo, Struttura e/o Associazione, statale e/o
privata che sia, debba essere riconosciuto il potere di formare, accreditare e
certificare la qualità di formazione, teorica e pratica, del Mediatore
Familiare, sono tutti aspetti, nondimeno fondamentali, che necessitano una
approfondita valutazione ed una specifica normazione.
Un dato è innegabile: il Mediatore familiare, una volta esaurito
il proprio percorso formativo – ancorché assiduamente tenuto a garantire la
propria formazione permanente mediante il costante aggiornamento
professionale-, deve poter avere accesso ad un Albo nazionale, pubblicamente
consultabile, anche in via telematica, in cui per ciascun iscritto sia
indicato:
– il percorso formativo seguito ai fini del conseguimento del
titolo e gli aggiornamenti successivi connessi all’obbligo di formazione
permanente;
– la scuola di pensiero e/o il modello di mediazione familiare
cui il professionista aderisce;
– il territorio regionale e provinciale di esercizio della
professione di Mediatore familiare;
– la forma individuale o associativa prescelta dal
professionista.
Inoltre, al fine di favorire una sinergica e fattiva
collaborazione tra i vari operatori del settore e, segnatamente, tra Avvocati,
Magistrati, Servizi sociali e Mediatori familiari, si potrebbe prevedere,
sempre de iure condendo, la tenuta presso il Ministero della
Giustizia, oltre che di un Albo nazionale, anche di sotto-elenchi, in ciascuno
dei quali inserire tutti i nominativi di Mediatori familiari in attività,
suddivisi secondo un criterio di ambito territoriale di operatività in
relazione al distretto di Corte di Appello di appartenenza.
Tali sotto-elenchi, anch’essi suscettibili di periodico
aggiornamento, da pubblicarsi sui siti internet di ciascuna Corte di Appello,
di ciascun Ordine territoriale degli Avvocati e di altri Ordini professionali,
e di ciascun Comune ricompreso nel territorio di riferimento, consentirebbe ad
Avvocati, Magistrati, Servizi sociali e Consultori familiari, di
attingervi per la designazione – sia nella fase pre-processuale che in quella
endoprocedimentale – del Mediatore familiare, quale figura professionale qualificata
da specifiche competenze, dotata di un ruolo e di una propria dignità giuridica
distinta, autonoma e differenziata da quella delle altre professioni, e non più
quale “esperto” che “tenti” una “mediazione” tra i coniugi per raggiungere
l’accordo, secondo il tenore letterale dell’art. 155 sexies, comma II, c.c..
Naturalmente, prevedendo nell’ambito di una più ampia disciplina
speciale sulla Mediazione familiare l’istituzione di un Albo nazionale dei
Mediatori familiari presso il Ministero della Giustizia, nonché, per
ragioni pratico-operative, la tenuta di sotto-elenchi consultabili dagli
utenti, dagli Enti territoriali, dagli Ordini professionali e dalla
Magistratura, si applicherebbe, non più la Legge n. 4/2013, avente carattere
generale, bensì la disciplina speciale di settore, in virtù del principio lex specialis derogat generali.
Per conseguenza, andrebbe totalmente riscritto il testo del
secondo comma dell’art. 155 sexies c.c., mediante l’espresso riferimento ad una
figura professionale “nuova”, quella del Mediatore familiare, non più ibrida
sotto il profilo processuale, ma avente una specifica e ben delineata
configurazione ed identità giuridica, a livello istituzionale, sostanziale e
processuale.
Due aspetti restano, a questo punto, da esaminare:
1) a chi affidare, de
iure condendo, il
compito/potere di aggiornare periodicamente l’istituendo Albo nazionale dei
Mediatori familiari ed i relativi sotto-elenchi;
2) se l’iscrizione all’Albo da parte del singolo Mediatore
familiare debba essere prevista come obbligatoria ovvero come semplice facoltà.
Orbene, per rispondere a tali quesiti, occorre riflettere sulla ratio sottesa all’esigenza normativa di
prevedere e regolamentare l’Albo nazionale dei Mediatori familiari: da un lato,
la necessità ormai improcrastinabile di riconoscere alla figura professionale
del Mediatore familiare un’identità istituzionale e giuridica propria,
autonoma, distinta e differenziata da quelle esistenti e, dunque, dalla
categoria professionale di appartenenza del singolo (sia esso -anche- avvocato,
psicologo, pedagogo, psicoterapeuta, sociologo, ecc.); dall’altro, garantire la
qualità e la competenza specialistica del Mediatore familiare, mediante la
“certificazione” del percorso formativo conseguito dal singolo.
In ragione di ciò, il potere di periodico aggiornamento e di
vigilanza sull’istituendo Albo nazionale dei Mediatori familiari andrà
normativamente conferito al Ministero della Giustizia; sarà, poi, l’Ente
accreditatore ad inviare al Ministero, secondo una cadenza periodica da
stabilirsi normativamente, i nominativi dei singoli professionisti, in ogni
caso su istanza degli interessati che intendano esercitare concretamente la
professione di Mediatore familiare.
In altri termini, l’iscrizione all’Albo dovrebbe essere prevista,
in linea di principio, come facoltativa; diverrebbe, invece, obbligatoria nel
caso in cui il Mediatore familiare volesse esercitare la professione,
costituendone condizione indefettibile e necessaria. In tal caso, l’interessato
dovrebbe indirizzare l’istanza di iscrizione al proprio Ente certificatore, il
quale, previa valutazione positiva delle competenze professionali e degli
standard qualitativi dell’istante, provvederebbe ad inviare il relativo
nominativo al Ministero della Giustizia per l’inserimento del medesimo
nell’Albo nazionale e nel rispettivo sotto-elenco in relazione all’ambito
territoriale di esercizio della professione.
Naturalmente, per i Mediatori familiari in attività all’entrata
in vigore della proponenda legge, l’Ente accreditatore dovrebbe tener conto in
sede valutativa dell’appartenenza dei medesimi ad Associazioni private già
accreditate e/o dell’esperienza professionale già maturata.
Inoltre, al fine di rendere concretamente esperibile il potere
di controllo e di vigilanza del Ministero della Giustizia sull’Albo nazionale,
nella prospettiva di garantire la costante qualità professionale del Mediatore
familiare già iscritto, si dovrebbe prevedere che l’Ente accreditatore invii
periodicamente al Ministero anche gli aggiornamenti relativi alla formazione
permanente conseguita dal singolo professionista, secondo un meccanismo basato
sull’istanza dell’interessato, onerato ex
lege di comunicare all’Ente
certificatore gli step della propria crescita professionale.
Il che impone la necessaria ed inevitabile previsione, nell’ambito della disciplina normativa di un istituendo Codice deontologico dei Mediatori familiari, di una serie di casi di cancellazione dall’Albo medesimo, tra i quali, certamente, il mancato assolvimento, da parte del singolo professionista, dell’obbligo di formazione continua e/o della relativa comunicazione all’Ente certificatore.
[1] La SIMEF, come l’associazione “Genitori
Ancora” (GeA), segue un tipo di mediazione c.d. integrata, ossia si avvale
delle competenze dei legali oltre che di quelle del mediatore familiare.
[2] L’AIMS segue un tipo di mediazione
familiare basata sull’approccio sistemico-relazionale (per il quale l’uomo vive
necessariamente in un sistema di relazioni che costituiscono il suo ambiente
vitale) e anche globale, ossia fondato sulla trattazione congiunta di aspetti
emotivo-relazionali ed aspetti economici.
[3] L’AIMEF raggruppa soci di diverse
scuole di formazione, ognuna portatrice, nel rispetto delle regole statutarie e
del codice deontologico, di diversi orientamenti di pensiero e, dunque, di
diversi modelli di mediazione familiare (negoziale, strutturato, clinico,
sistemico-relazionale, integrato, globale, ecc).
[4] Il FORUM EUROPEO, organismo di
formazione e di ricerca per la Mediazione Familiare è una Associazione senza
scopo di lucro, a norma della legge 1901 francese, che riunisce in sé
organizzazioni nazionali, regionali e locali di differenti Paesi europei, che
formano alla Mediazione familiare nel campo della separazione, del divorzio,
della tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, dei conflitti familiari; ed alla
Mediazione nel campo dell’incomunicabilità e delle situazioni conflittuali tra
persone o gruppi, tra istituzioni o imprese. Il FORUM EUROPEO è
stato creato nel 1996 da mediatori familiari e formatori provenienti da
differenti Paesi europei che si sono riuniti per lavorare insieme con il
coordinamento della sezione formazione dell’APMF (all’epoca Associazione per la
Promozione della Mediazione Familiare francese). Oggi il FORUM EUROPEO è
completamente indipendente e dal 2012 si è aperto dall’area della mediazione
familiare per integrare tutti i campi della mediazione: scolastica,
internazionale, d’impresa, sanitaria, del lavoro, civile, giudiziaria,
istituzionale, ecc.. Attualmente lo scopo del FORUM EUROPEO è quello di
promuovere, sviluppare e coordinare la formazione e la ricerca nel campo della
mediazione familiare, della mediazione familiare internazionale e di altre
tipologie di mediazione, elaborando degli standard di qualità nella formazione
e nella pratica della mediazione familiare, della mediazione familiare
internazionale e più in generale della mediazione in Europa. OBIETTIVI : a)
Riunire i Centri di formazione che erogano formazione alla mediazione familiare
e alla mediazione familiare internazionale e sollecitarli ad operare in uno
spirito di cooperazione interdisciplinare, rispettando le specificità nazionali
e culturali; b) riunire i referenti e i responsabili per la formazione negli
altri ambiti della mediazione e sollecitare anch’essi a operare in uno
spirito di cooperazione interdisciplinare, nel rispetto delle specificità
nazionali e culturali; c) stabilire dei criteri sui contenuti della formazione
ed accompagnare la loro attuazione; d) promuovere la professionalità dei
mediatori familiari, dei mediatori familiari internazionali e degli altri
mediatori attraverso la formazione continua; e) favorire, nella formazione
iniziale ed in quella continua, gli scambi di esperienze di mediazione in
differenti contesti; f) offrire uno spazio strutturato, che favorisca la
riflessione e la ricerca in mediazione familiare e mediazione familiare
internazionale nelle situazioni di conflitto coniugale, genitoriale, familiare,
che riguardano l’infanzia e l’adolescenza, l’intergenerazionale e il trans
generazionale, e in tutti gli altri campi della mediazione in connessione con
la scuola, l’impresa, la giustizia, le istituzioni; g) sviluppare relazioni e
partenariati con le organizzazioni europee e internazionali coinvolte nella
messa in atto di servizi di mediazione.
[5] SPADARO G.-CHIARAVALLOTI S.,
L’interesse del minore nella Mediazione familiare, Giuffrè, Milano, 2012, 238
ss.
[6] Linee guida A.I.Me.F per l’accesso alla
Mediazione Familiare nel corso del procedimento di separazione e divorzio:
“premesso che l’art.155 c.c., così come modificato dalla L.54/2006 in materia
di separazione dei coniugi e affidamento condiviso de i figli, dispone che
“anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il
diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno
di essi, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi e di conservare
rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo
genitoriale”; il successivo art.155 sexies c.c. stabilisce che “qualora ne
ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro
consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per
consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per
raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse
morale e materiale dei figli”; nulla è disposto in merito a chi siano gli
esperti e con quali modalità il magistrato, le parti o i loro avvocati possano
accedere alle loro prestazioni nel corso del procedimento giudiziario; per
coinvolgere il mediatore familiare nel corso del giudizio nei Tribunali si
attuano prassi differenziate: ora viene nominato CTU ex art.61 c.p.c., ora
ausiliario ex art.68 c.p.c., ora senza riferimenti specifici; tale modalità
operativa genera confusione circa la specificità dell’intervento mediativo
nell’ambito del processo di separazione e divorzio; invero, il professionista
idoneo alla pratica della mediazione familiare dovrebbe avere una formazione
specifica che risponda agli standard minimi stabiliti dal FORUM EUROPEAN –
Formation et Recherche en Médiation Familiare (www.europeanforum -fa
milymediation.com) organismo di formazione e ricerca in mediazione costituitesi
a Marsiglia (Francia) nell’aprile 1998. Standard ripresi e perfezionati nello
Statuto A.I.Me.F.; inoltre, il professionista idoneo alla pratica della
mediazione familiare dovrebbe agire nel rispetto della deontologia professionale
regolamentata dall’European Code of Conduct for Mediators firmato a Bruxelles
il 2 luglio 2004. Deontologia ripresa e perfezionata nello Statuto e nel
Regolamento Interno A.I.Me.F.; infine, il ruolo e la funzione del mediatore
familiare sono chiaramente delineati dalla Raccomandazione (98)/1 del 19.01.98
del Consiglio d’Europa, nonché dalla Raccomandazione 1639 del 25.11.03
dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. In particolare, tali
provvedimenti mettono in evidenza che: a) la mediazione dovrebbe essere
autonoma e complementare rispetto al contesto giudiziario; b) il
mediatore familiare dovrebbe avere una funzione esclusivamente di natura
compositiva e non valutativa; c) la volontarietà della coppia al percorso di
mediazione familiare è predittiva di un buon esito del medesimo; l’istituto
dell’esperto mediatore ex art.155 sexies c.c. è incompatibile con quello del
CTU ex art.61 e ss c.p.c. e artt.13-24; 89-92 disp. att. e con quello degli
altri ausiliari ex art. 68 c.p.c. innanzitutto per l’autonomia e la
complementarietà del percorso di mediazione familiare rispetto al contesto
giudiziario. Difatti, mentre gli ausiliari del giudice – tra cui in primis il
CTU – sono da quest’ultimo incaricati in suo ausilio ai fini della decisione, il
mediatore familiare, invece, mette la propria professionalità a disposizione
delle parti. Il destinatario dell’attività dell’ausiliario risulta, di
conseguenza, essere il giudice, mentre i beneficiari dell’attività del
mediatore sono le parti. Inoltre, la riservatezza e la confidenzialità degli
incontri, l’assenza di processo verbale e di relazione da parte del mediatore,
la natura esclusivamente compositiva dell’intervento, la volontarietà
dell’accesso al percorso che esclude di per sé una nomina da parte del giudice,
una formulazione di quesito e un giuramento, confermano l’inconciliabilità tra
i due istituti. Infine, essendo l’attività del mediatore svolta su incarico e
nell’interesse delle parti, il relativo compenso è concordato tra questi ultimi
e il mediatore e non liquidato dal giudice. Ciò premesso, l’A.I.Me.F. ritiene
che l’art. 155 sexies c.c. si riferisca all’esperto mediatore familiare quale
nuova figura tipica, extraprocessuale e che, in ragione di ciò, sia opportuno
regolare l’accesso alle sue specifiche prestazioni in base alle seguenti LINEE
GUIDA OPERATIVE: in applicazione dell’art.155 sexies c.c. il provvedimento del
giudice potrebbe essere del seguente tenore: “Il giudice, sentite le parti ed
ottenuto il loro consenso, riservato ogni provvedimento, rinvia l’udienza
al………..…..… per permettere alle parti di raggiungere un accordo avvalendosi di
esperti mediatori familiari”; a prescindere dalla fase e dal grado di giudizio,
in caso le parti vogliano spontaneamente accedere ad un percorso di mediazione
familiare è necessario che le medesime, tramite i loro legali rappresentanti,
facciano istanza congiunta al giudice per sospendere l’iter giudiziario,
rinviando la trattazione della causa per un tempo adeguato al percorso
mediativo; è necessario tenere distinte le figure processuali del CTU di cui
all’art.61 e ss c.p.c. e degli altri ausiliari del giudice ex art.68 c.p.c. da
quella extraprocessuale dell’esperto mediatore, cui le parti possono accedere
ai sensi dell’art.155 sexies c.c.; è preferibile che il giudice non disponga un
invio coatto indiretto in mediazione familiare (in ambito di Consulenza Tecnica
d’Ufficio) ma che, all’occorrenza, si limiti a sensibilizzare le parti e i loro
legali sulle opportunità che la risorsa offre, invitandoli al più ad un
incontro informativo con un mediatore familiare qualificato, senza obbligo di
accesso al percorso di mediazione; allo scopo è necessario rendere accessibile
alle parti e agli organi tradizionali del processo un elenco dei mediatori
familiari esperti a favorire la comunicazione e la negoziazione finalizzata
agli accordi di separazione distinto da quello dei CTU e degli altri ausiliari
del giudice. L’A.I.Me.F. chiede di rendere disponibile e consultabile l’elenco
dei propri associati presso la Cancelleria della Sez. Famiglia del Tribunale o
della Volontaria Giurisdizione; il professionista incaricato dovrà tenere
sempre presente il suo ruolo e la sua funzione a seconda dell’incarico ricevuto
e precisamente: a) quando è nominato dal giudice in funzione di CTU, il
consulente, qualora dovesse essere anche mediatore familiare, dovrà
attenersi all’incarico ricevuto nei limiti del quesito e svolgere le attività
processuali previste e regolate dal c.p.c., senza avviare un percorso di
mediazione familiare; b) quando è chiamato dalle parti in funzione di mediatore
familiare, il mediatore, qualora dovesse essere iscritto anche nell’albo dei
CTU, dovrà svolgere l’attività di mediazione con intento compositivo e
negoziale, astenendosi da valutazioni e da altre attività precluse al mediatore
familiare dal suo codice deontologico”.
Prospettive d’intervento per una cultura della mediazione familiare.
(Relazione tenuta dall’Avv. Emanuela Palama’ in occasione della Cerimonia d’inaugurazione dell’anno della Mediazione 2013-2014, svoltasi il 19 settembre 2013 in Roma presso la Sala Capitolare del Senato della Repubblica).
La querelle sulla obbligatorietà della
mediazione civile e commerciale, quale strumento alternativo di risoluzione dei
conflitti, è ritornata alla ribalta con il noto “decreto del fare”
(Decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69), che ha reintrodotto la mediazione
obbligatoria per molte materie, in gran parte già previste dal D. Lgs. n.
28/2010, alla stregua di condizione di procedibilità delle relative
controversie.
Pregevole è la ratio sottesa a tale intervento normativo,
ossia l’obiettivo di promuovere e favorire la conciliazione tra le parti a
seguito dello svolgimento dell’attività di mediazione, definita expressis verbis come “l’attività, comunque denominata,
svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti
nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia,
anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa” (art.
1, lett. a) D. Lgs. N. 28/10 come novellato dal D. L. n. 69/13).
Dunque, l’obiettivo dell’attività di mediazione
è il perseguimento di un accordo tra le parti in lite, raggiunto, con l’ausilio
del mediatore, attraverso la valorizzazione ed il reciproco riconoscimento
delle capacità negoziali e delle competenze decisionali di ciascuna di esse.
Alcuna attenzione, tuttavia, è stata sino ad
oggi riservata, a livello istituzionale, ad una organica disciplina
nazionale delle modalità di gestione, diverse dalla lite giudiziaria, delle
controversie che involgono le relazioni sentimentali legate ai rapporti
familiari, pur essendo la famiglia “un luogo fisico e psichico di
interazioni e di interessi … una realtà inizialmente biologica che, stante
questo suo lato, può essere la fonte di conflitti devastanti tra i suoi membri
e può essere addirittura il luogo di un’infezione perniciosa e funesta che
infetta l’intera società“[1].
Ben si comprende, allora, l’importanza del
rapporto tra persona, famiglia e società: è in famiglia che l’individuo, nel
rapporto con i suoi genitori, i nonni, i fratelli e le sorelle, i parenti e gli
amici che la frequentano, impara ad educarsi all’altro e, dunque, al suo futuro
e possibile matrimonio o convivenza ed alla famiglia che vorrà e potrà formare.
E’ opinione comune e diffusa che la famiglia
sia la prima cellula della società civile, poiché essa rappresenta la
formazione sociale primaria, nella quale ciascun individuo sviluppa la sua
personalità e compie un percorso di crescita psico-fisica ed un’esperienza
evolutiva di bisogni e di emozioni.
La persona si costruisce nel tempo e coniugi e
genitori si diventa non solo per aver dato vita, biologicamente o
giuridicamente, ad un patto o per aver generato un figlio, ma perché
pedagogicamente e relazionalmente si sono realizzati dei rapporti di amore e di
fedeltà, di educazione e di sviluppo[2], di rispetto per l’altro significativo e
di solidarietà reciproca, rapporti che si esternano attraverso il linguaggio
comunicativo nelle sue diverse forme, verbali, comportamentali e gestuali.
Molti blocchi dell’interazione dialettica tra i
coniugi o tra i partner, che possono portare a vere e proprie disfunzioni del
rapporto di coppia sino alla definitiva rottura, sono determinati assai spesso
dalla progressiva mancanza di comunicazione, dal conseguente venir meno di una
progettualità condivisa o condivisibile; mutatis
mutandis dalla crisi della
relazione affettiva della coppia, che approda, su iniziativa di uno o di
entrambi i partner, alla separazione e, dunque, nella maggior parte dei casi,
alla irreversibile rottura.
Sotto il profilo delle dinamiche
emotivo-relazionali, i partner mettono in atto delle risposte comportamentali,
nel contempo reattive ed adattive alla nuova situazione, che, in ragione delle
diverse modalità di gestione del conflitto, incidono sulle risposte, a loro
volta, attivate dai figli di fronte alla percezione delle variazioni del
rapporto genitoriale, sia in funzione adattiva alla nuova situazione familiare
che come “strategia” di richiamo su se medesimi dei genitori occupati dal
conflitto.
Una lucida, interessante ed approfondita
analisi delle dinamiche relazionali che si innescano nel rapporto di coppia ed
in quello tra genitori e figli in conseguenza della vicenda separativa, e più
in generale della crisi di coppia, è tracciata da Francesco Canevelli
(psichiatra e psicoterapeuta) e Marina Lucardi (psicologa e psicoterapeuta),
entrambi soci fondatori della Società Italiana di Mediazione Familiare, nel
testo “La Mediazione Familiare. Dalla rottura del legame al riconoscimento
dell’altro” (Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, 2008): gli Autori
evidenziano con chiarezza espositiva le sintomatologie, non necessariamente
patologiche o disfunzionali, manifestate dai figli delle coppie separate o in
fase di separazione, in relazione alla loro età (prescolare, scolare, adolescenziale
e della giovinezza), ai propri vissuti in ambito familiare, alla fase del
processo separativo e, soprattutto, alle modalità di gestione del conflitto da
parte dei genitori, pre e post separazione.
In contesti siffatti, lo spazio neutro della Mediazione
familiare offre alle coppie la straordinaria opportunità di superare la visione
agonistica della conflittualità, di ripristinare il canale di comunicazione
interrotto, attraverso il quale esternare le proprie posizioni, richieste,
rifiuti, emozioni e bisogni personali, predisponendosi
all’ascolto delle richieste,
dei rifiuti, delle esigenze e degli stati emotivi dell’altro, riconoscendo
quest’ultimo come proprio interlocutore attraverso la possibilità di “dirsi
delle cose”, in un clima di reciproca fiducia e nell’ambito di un percorso teso
alla ricerca di accordi condivisi e verificabili, inerenti in primis all’area della genitorialità, mediante
il quale ciascuno dei partner finisce per riconoscere gradualmente l’altro, non
solo come interlocutore, ma anche come “negoziatore”.
La fenomenologia delle interazioni costruttive
che si manifestano nell’ambito della Mediazione familiare evidenzia il valore
fondante della stessa quale vero e proprio servizio per la coppia in crisi,
stante l’eccezionale opportunità di vivere un’esperienza di confronto, intesa
sia come ambito di ascolto dell’altro e di esposizione di sé, sia come terreno
più propriamente negoziale, in quanto la possibilità di fidarsi ed al tempo
stesso di sottolineare i limiti di questa fiducia, anzi di ribadire la distanza
da un altro significativo, è legata fondamentalmente ad un recupero di
autostima, che consente di non temere di essere sopraffatti dall’altro né di
avere bisogno di sopraffare per affermarsi.
Da questo punto di vista, la migliore garanzia
per i figli non è tanto rappresentata dal raggiungimento di un accordo che
eviti il protrarsi della conflittualità, quanto soprattutto dall’essere
collocati al di fuori dell’area dei possibili strumenti di sopraffazione
reciproca dei genitori e poter mantenere, in tal modo, un rapporto equilibrato
con entrambi, senza essere “ostaggio” di alcuno di essi.
La Mediazione familiare diviene, pertanto, il
luogo di passaggio offerto alle coppie separate, luogo da cui vengono scacciati
i fantasmi della patologia, della riparazione del danno, dell’attribuzione
della colpa e in cui trovano spazio e dignità la storia, il dolore e la
progettualità[3], nella edificazione e nella reciproca
accettazione di una nuova dimensione del “noi”, che si fonda sul riconoscimento
dell’altro come “genitore separato”.
S’impone, dunque, un intervento a livello
istituzionale e normativo per la diffusione ed il consolidamento di una nuova
cultura della separazione della coppia, che non la stigmatizzi come evento
patologico di difficile risoluzione, ma la consideri piuttosto un’esperienza,
ancorché critica, da cui ripartire per una positiva riorganizzazione della vita
di tutti i componenti del nucleo familiare, valorizzando l’istituto della
Mediazione familiare, quale risorsa e strumento fondamentale di supporto alla
famiglia in crisi e di migliore comprensione delle esigenze dei minori, se non
addirittura come servizio per la coppia genitoriale da inquadrare
istituzionalmente nell’alveo delle Politiche sociali e per la Famiglia.
Ciò implica la necessità, non solo di un
incremento degli spazi di offerta di Mediazione familiare e, quindi, di
operatori qualificati ed adeguatamente formati, ma anche di una contemporanea
crescita della cultura della Mediazione familiare presso l’utenza, gli
operatori del diritto, i Servizi sociali, pubblici e privati, i Consultori
familiari, gli Enti territoriali ed ogni ambito della socialità (scuole
dell’infanzia, primaria e secondaria, Università, diocesi).
Non può revocarsi in dubbio, d’altro canto, che
il Mediatore familiare debba essere un professionista altamente qualificato e
formato per poter facilitare la comunicazione tra i due partner, rimanendo
‘estraneo’, terzo ed imparziale rispetto alla coppia ed al conflitto,
mantenendo quel distacco che gli consente di leggere correttamente i segnali ed
i messaggi, verbali e non, che emergono durante le sessioni di mediazione,
nell’interesse di entrambi e, soprattutto, dei figli.
Come già osservato in un mio contributo in
materia, in occasione della partecipazione al V Forum Nazionale dei Mediatori,
tenutosi il 28 giugno 2013 presso la Camera dei Deputati, Palazzo Marini, Sala
della Mercede [4], il Legislatore italiano ha lasciato un
grave vuoto normativo non occupandosi espressamente e con una disciplina
nazionale organica di Mediazione Familiare, non definendo la figura, le
competenze, il ruolo professionale e formativo del Mediatore familiare.
Si rende dunque necessario, anzitutto,
inquadrare normativamente la Mediazione Familiare, tracciandone l’ambito
operativo, istituendo la figura professionale del Mediatore Familiare quale
professionista in possesso di requisiti ben specifici, accertati e riconosciuti
mediante l’iscrizione in un apposito Albo dei Mediatori Familiari,
disciplinandone gli ambiti di competenza. Ciò nella prospettiva di garantire la
professionalità di chi si qualifica Mediatore Familiare ed esercita la
professione come tale; il che impone l’elaborazione di un Codice deontologico
del Mediatore Familiare, con un’elencazione di obblighi, sanzionabili in
ipotesi di violazione, e l’introduzione di un Tariffario che renda trasparente
all’utenza l’accesso al percorso di Mediazione Familiare.
Sotto altro profilo, occorre informare e far
conoscere adeguatamente la Mediazione familiare – e, dunque, le caratteristiche
dell’intervento mediativo, la sua funzione, la sua finalità ed i suoi obiettivi
-, in primis presso l’utenza, per porla nelle condizioni
di scegliere consapevolmente e scientemente se gestire il conflitto coniugale
o, comunque, di coppia con l’ausilio della Mediazione familiare.
E’ questione assai dibattuta ancora oggi quella
inerente alla natura volontaria o obbligatoria dell’accesso al percorso di
Mediazione familiare ed è opinione largamente condivisa, ma certamente non
univoca, che la volontarietà dell’accesso e la libertà di partecipazione
all’esperienza di mediazione siano una caratteristica inderogabile del percorso
mediativo, in quanto immediatamente connesse con il principio delle competenze
(di esposizione di sé e di ascolto dell’altro, interlocutorie e negoziali) di
ciascun componente della coppia.
A sommesso avviso della scrivente, tuttavia,
una scelta volontaria può esplicarsi consapevolmente e responsabilmente solo da
parte di chi conosca la Mediazione familiare, sa quali aspettative – di
carattere emotivo-relazionale e negoziale – può ragionevolmente riconnettere al
lavoro di mediazione; diversamente, solo un accesso “obbligato”, almeno in via
preliminare ed al fine di ricevere un’adeguata consulenza di pre-mediazione a
cura di professionisti esperti e competenti in materia, può consentire alla
coppia di acquisire gli elementi necessari per decidere di avviare e/o proseguire
il setting di Mediazione familiare e, in ultima analisi, scegliere
volontariamente.
Da qui la proposta normativa di istituire,
almeno presso ciascun distretto di Corte di Appello, un Centro di Mediazione
Familiare gratuito e di rendere la Mediazione familiare un percorso
obbligatorio e gratuito nei casi in un cui sia proposto un giudizio di
separazione personale dei coniugi, di scioglimento o di cessazione degli
effetti civili o di nullità del matrimonio, o un procedimento relativo
all’affidamento ed al mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, quando
vi sia conflittualità nella coppia.
A tal fine, potrebbe essere previsto un vero e
proprio passaggio “obbligato” dell’iter procedimentale: un paio di incontri
preliminari tra i coniugi o tra i partner in conflitto ed il Mediatore
familiare, tesi, da un lato, a chiarire le modalità e gli obiettivi del
percorso mediativo in fieri e, dall’altro, a consentire al
Mediatore di valutare la mediabilità della coppia e, dunque, la concreta
possibilità di iniziare il vero e proprio lavoro di mediazione familiare. Così
strutturata, la Mediazione familiare potrebbe rivelarsi una risorsa
fondamentale sia per la coppia genitoriale disponibile a proseguire il
percorso, sia per gli inevitabili effetti deflattivi del contenzioso in ambito
familiare che ne discenderebbero.
In proposito, si evidenzia come l’attuale
formulazione dell’art. 337 octies c.c., come introdotto nel tessuto codicistico
dallo schema di decreto legislativo n. 14 del 2013, approvato dal Consiglio dei
Ministri il 12 luglio 2013, in attuazione della legge delega n. 219/2012, in
materia di equiparazione tra figli legittimi e figli nati fuori del matrimonio,
si è limitata, al comma 2, alla tralaticia riproduzione del secondo comma
dell’abrogato art. 155 sexies c.c. ( introdotto dalla L. n. 54/2006 sull’affido
condiviso), recitando: “Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice,
sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei
provvedimenti di cui all’articolo 337-ter per consentire che i coniugi,
avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con
particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”.
Ancora una volta, dunque, si è persa
l’occasione per promuovere, a livello normativo ed istituzionale, un passaggio
preliminare obbligatorio presso un centro di mediazione per le coppie in
disaccordo, che potesse permettere loro di valutare l’utilità del percorso
mediativo, lasciando così inalterata la già impropria formulazione del dato
letterale, che sin dalla introduzione della norma con la L. n. 54/06, ha creato
non poche difficoltà interpretative, in quanto le espressioni “tentare” e
“raggiungere un accordo” si addicono più alla conciliazione che alla
mediazione. Inoltre, si parla ancora oggi di “esperti” e non di mediatori,
evidentemente nell’intento di ricondurre la figura del mediatore familiare a
quelle già esistenti senza creazione ex
novo di una nuova
professionalità (ovviamente ai fini processuali e limitatamente al processo).
Un risultato ancora più auspicabile sarebbe, a
monte, prevedere l’obbligo per i professionisti e/o gli operatori a cui la
coppia in disaccordo si rivolge – avvocati, assistenti sociali, psicologi,
psicoterapeuti, ma anche docenti o chi opera nelle parrocchie o in centri di
accoglienza di famiglie in difficoltà – di informare la coppia stessa
circa l’opportunità offerta dalla Mediazione familiare di meglio gestire il
proprio conflitto, per il benessere dei partner e soprattutto della prole.
Si appalesa, dunque, di fondamentale importanza
divulgare la conoscenza e la cultura della Mediazione familiare in ogni ambito
della socialità. La posizione dell’inviante e la qualità del suo messaggio
rispetto alle caratteristiche, al significato, agli obiettivi ed all’utilità
dell’intervento di Mediazione familiare incidono, invero, in maniera
significativa sulla decisione della coppia di sperimentare il percorso
mediativo, innanzitutto sotto il profilo della definizione delle aspettative
degli utenti del servizio.
Tuttavia, una corretta consulenza di
pre-mediazione impone prima ancora l’adeguata ed approfondita conoscenza della
Mediazione familiare da parte dell’inviante, che ad oggi appare, per contro,
piuttosto superficiale.
A tale proposito, vorrei richiamare l’attenzione
del lettore su un aspetto, purtroppo totalmente trascurato, afferente la
promozione della cultura della Mediazione familiare tra i dirigenti ed il corpo
docente della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria.
Gli insegnanti, per il ruolo pedagogico che
rivestono, possono essere i primi invianti della coppia genitoriale separanda o
già separata al percorso di Mediazione familiare, ogniqualvolta rilevino uno
scarso rendimento scolastico del figlio, comportamenti aggressivi o di
isolamento del medesimo, non resi manifesti precedentemente a tale evento, o
comunque agiti del minore sintomatici di un disagio, non necessariamente
disfunzionale, legato alla vicenda separativa dei genitoriin fieri o già allo stadio conclusivo.
E’ ultroneo ripetere che ai fini di un’adeguata
consulenza di pre-mediazione occorre far conoscere ai possibili invianti la
natura, le caratteristiche e l’utilità dell’intervento di Mediazione familiare.
Analogo discorso, pertanto, vale per i
Consultori familiari o per chi opera nell’ambito delle parrocchie, alle quali
si rivolga chi vive quotidiane criticità del proprio rapporto di coppia.
Alla luce di quanto innanzi esposto, occorre:
1) Sollecitare un
intervento normativo in materia di Mediazione Familiare, quale strumento di
prevenzione primaria dei disagi emotivo-relazionali, non patologici, dei
componenti della famiglia in crisi e di gestione del conflitto di coppia e
genitoriale, nella prospettiva di salvaguardare il benessere preminente dei
figli, nonché al fine di definire e regolamentare il profilo professionale e
formativo del Mediatore Familiare;
2) Diffondere in modo
capillare la cultura della Mediazione Familiare:
a) mediante
un’adeguata conoscenza ed una corretta informazione diretta all’utenza ed agli
operatori giuridici (magistrati ed avvocati) e dei servizi sociali, pubblici e
privati, circa la natura e la funzione della Mediazione Familiare, intesa come
spazio neutro di incontro, nel quale la coppia in crisi è posta nelle
condizioni di recuperare e mettere in atto le proprie risorse, competenze e
capacità sia nel gestire il conflitto nel migliore dei modi possibili che di
negoziare le condizioni e le scelte inerenti alla riorganizzazione della
propria quotidianità:
b) attraverso
un’attività di sensibilizzazione al ricorso e/o all’invio della coppia alla
Mediazione familiare per la gestione dei conflitti, che andrà espletata in
ambito scolastico (presso la Scuola dell’infanzia, primaria e secondaria e
l’Università), in ambito giudiziario e forense, presso gli Enti territoriali, i
Consultori familiari, le diocesi;
c) realizzare i
suddetti obiettivi attraverso il coinvolgimento diretto degli Enti
territoriali, delle Scuole, degli Ordini territoriali delle diverse
professionalità coinvolte (avvocati, psicologi, ecc.), della Magistratura,
dell’Università nell’auspicio di promuovere e favorire una rete interattiva tra
tutti i servizi, nell’interesse della famiglia e dei figli e, dunque, in ultima
analisi della società civile.
La nostra sfida è far comprendere che per la
coppia in conflitto sperimentare un percorso di mediazione significa non uscire
né vincitori né vinti da una battaglia, ma, piuttosto, “vincenti insieme” per
una vita più serena per sé e per i figli.
[1] CORSI
M. – SIRIGNANO C., La
mediazione familiare. Problemi, prospettive, esperienze, Vita e Pensiero,
Milano, 2007, 3 e ss.
[3] CANEVELLI
F. – LUCARDI M., La Mediazione
Familiare. Dalla rottura del legame al riconoscimento dell’altro, Bollati
Boringhieri editore s.r.l., 2008, 202, 248.
Avro’ l’immenso onore di partecipare, quale relatrice, a questo evento, che si terrà Giovedì 19 settembre 2013, dalle ore 09:00 alle ore 14:00, nella prestigiosa Sala Capitolare del Senato della Repubblica, presso il Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva in Piazza della Minerva 38, Roma.
L’EVENTO VEDRA’ LA PARTECIPAZIONE DI:
Annamaria Cancellieri Ministro della Giustizia
Michele Vietti Vice-Presidente del CSM
Giorgio Santacroce Primo Presidente della Corte di Cassazione
Gabriele Albertini Senatore e componente della Commissione Giustizia