Convegno “Procreazione cosciente e responsabile: tra disponibilità del diritto all’aborto e tutela del diritto alla vita del nascituro”, presso Officine Cantelmo in Lecce

(tra i relatori, Avv. Emanuela Palama’)

Intervento dell’Avv. Emanuela Palama’

Procreazione cosciente e responsabile tra disponibilità del diritto all’aborto e tutela del diritto alla vita del nascituro”: delicata problematica che attiene alla individuazione dei confini entro, o meglio dire, oltre i quali l’autonomia privata può spingersi fino a determinare le sorti della vita di colui qui in utero est e, dunque, di un altro soggetto che, ancorché concepito, non è ancora nato.

La questione induce, in limine, ad indagare sulla qualità da attribuire al concepito nella sua dimensione rigorosamente giuridica, attraverso un’analisi scevra da suggestioni o da convinzioni di tipo morale, bioetico o filosofico, al fine di poterne affermare la natura di “soggetto di diritto” ovvero di “oggetto di tutela” sino al momento della nascita.

Se, infatti, il codice civile riconosce la rilevanza della persona fisica all’atto della nascita – l’art. 1 c.c. stabilisce che la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita -, nondimeno contempla la possibilità che il concepito, o addirittura colui che sarà concepito da persona vivente, sia destinatario di disposizioni patrimoniali, mortis causa (art. 462 c.c.) o inter vivos (art. 784 c.c.). Ai sensi del secondo comma dell’art. 1 del codice civile, la titolarità dei diritti riconosciuti a colui qui in utero est è subordinata all’evento nascita.

Non può revocarsi in dubbio che la vita umana sia un diritto indisponibile.

Tuttavia, se questa fosse l’affermazione di un principio assoluto ed inderogabile, rispetto al quale misurare la liceità dell’atto dispositivo della gestante implicante la soppressione del feto, si dovrebbe concludere per l’assoluta illegittimità della procedura finalizzata alla interruzione volontaria della gravidanza.

Ed allora, occorre interrogarsi sulla ratio della Legge 22.05.1978, n. 194, rubricata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.

L’incipit della L. n. 194/1978 individua i beni giuridici presidiati dallo Stato, il quale, ai sensi dell’art. 1, “garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”.

Tuttavia, pur salvaguardando la vita umana dal suo concepimento, il diritto alla vita di colui qui in utero est non gode di tutela assoluta ed incondizionata, poiché tale diritto è destinato a soccombere nel bilanciamento con il confliggente diritto alla salute fisica o psichica della gestante.

Quindi, nel contemperamento tra il valore della vita e della salute della donna, da un lato, e la tutela del concepito, dall’altro, la legge ammette il sacrificio della vita del concepito, consentendo alla madre – in presenza delle condizioni previste – di autodeterminarsi circa l’evento nascita e di interrompere la gravidanza.

La gestante, naturalmente, non può ricorrere all’intervento abortivo ad libitum, bensì solo in presenza di alcuni presupposti, indicati negli artt. 4 e 6, tali da esporre la sua salute fisica o psichica ad un pericolo serio, nei primi novanta giorni, o grave, successivamente. Ed invero, ai sensi del secondo comma dell’art. 1, l’interruzione volontaria della gravidanza non costituisce mezzo per il controllo delle nascite e l’eventuale pratica abortiva, posta in essere in difetto dei presupposti di legge, configurerebbe condotta antigiuridica, sanzionata dal successivo art. 19.

La legge 194/1978 modula diversamente il diritto di abortire della donna a seconda che il medesimo venga esercitato nei primi novanta giorni dal concepimento o successivamente.

Nel primo caso, ai sensi dell’art. 4, la gestante può decidere di porre fine alla gravidanza ove accusi circostanze per le quali la prosecuzione della stessa, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per le sue condizioni fisiche o psichiche, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, sociali e familiari, ovvero alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. E’ evidente che il contemperamento tra l’interesse della donna ad autodeterminarsi in ordine alla possibilità di continuare la gravidanza e quello del concepito alla nascita è risolto in favore della prima.

Nel caso in cui siano trascorsi novanta giorni, la legge prevede condizioni nettamente più restrittive alla libertà decisionale della gestante: ai sensi dell’art. 6, infatti, l’esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza è subordinato alla ricorrenza di un grave pericolo per la salute della donna, derivante dalla gravidanza o dal parto, o da processi patologici accertati, tra i quali quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni nel feto, salvo, in tale ultima evenienza, il caso in cui si riscontri la possibilità di una vita autonoma dello stesso, circostanza che preclude la facoltà della donna di abortire. In siffatta ipotesi, ai sensi dell’art. 7, comma 3, l’aborto non può essere praticato se non quando la gravidanza ed il parto comportino un grave pericolo di vita per la donna e previa adozione di ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto. Dunque, quando siano trascorsi novanta giorni, la tutela del concepito giunge ad uno stadio ulteriore, al punto che può prevalere rispetto alla volontà della madre di non proseguire la gestazione: l’esistenza di malformazioni nel feto non è di per sé motivo legittimante l’interruzione della gravidanza, essendo questa correlata al presupposto del grave pericolo per la vita della donna.

L’interesse salvaguardato in via primaria dalla Legge n. 194/1978 è, dunque, il diritto di ogni donna ad una procreazione cosciente e responsabile, che assurge a valore inviolabile della libertà personale, presidiato dall’art. 13 della Costituzione. Rientra, dunque, tra le estrinsecazioni del diritto protetto dalla L. n. 194/1978 la prerogativa di scegliere il momento più opportuno per far nascere un figlio, per farlo crescere in un ambiente familiare armonioso e sereno ed in un contesto economico stabile o quantomeno non precario. Il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile trova fondamento nella “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (firmata a Roma il 4 novembre 1950), che all’art. 12 riconosce il diritto di ogni persona di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto, nonché, all’art. 8, il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare. In proposito, la Corte europea con sentenza del 26.05.2011, n. 27617/04 ha precisato che “la nozione di vita privata è un concetto ampio che include il diritto di ogni individuo di avere autonomia personale e scegliere come sviluppare la propria identità. In questa nozione è incluso il diritto di ogni individuo «di avere o non avere un bambino o di diventare genitore»”. Il diritto di ogni individuo al rispetto della propria vita privata e familiare, nonché di sposarsi e di costituire una famiglia sono, altresì, riconosciuti ed affermati dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” del 7 dicembre 2000, rispettivamente agli artt. 7 e 9.

Naturalmente, anche la tutela del concepito ha fondamento costituzionale: nell’art. 31, comma 2, Costituzione, che impone espressamente la protezione della maternità e, più in generale, nell’art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito. In tal senso, si è espressa la Corte Costituzionale con la sentenza del 18 febbraio 1975, n. 27, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 546 c.p. (aborto di donna consenziente) nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando la sua prosecuzione implicasse danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre. L’iter logico-argomentativo di questa pronuncia della Consulta trae fondamento dalla considerazione della non equivalenza fra il diritto, non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi già è persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare.

Si ripropone nuovamente la questione, prospettata all’inizio del mio intervento, sulla natura giuridica del concepito, ossia se questi va ragguardato quale “soggetto di diritto” o piuttosto come “oggetto di tutela” sino al momento della nascita, onde poter individuare i diritti azionabili dal nascituro, una volta nato, in particolare nell’ipotesi in cui la madre non abbia esercitato il diritto di interrompere la gravidanza, pur ricorrendo le condizioni normativamente previste, ed il concepito sia nato, quindi, malformato.

Naturalmente, ai fini di un esercizio consapevole del diritto alla procreazione responsabile è necessario che la gestante sia informata di ogni circostanza che possa influire sulla sua decisione di interrompere o proseguire la gravidanza, come nel caso in cui il quadro diagnostico evidenzi la sussistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro.

Se è vero, infatti, che la scelta tra interrompere o proseguire la gravidanza in presenza di un’accertata malformazione fetale è un fatto volitivo, fortemente condizionato da valori etici, religiosi, culturali che appartengono alla sfera più intima della persona, in forza dei quali la gestante potrebbe operare una scelta diversa da quella abortiva, è, altresì vero, che la futura madre, posta di fronte alla prospettiva di dover prestare assistenza ad un figlio menomato, di dover sacrificare tempo, energie ed attenzioni ulteriori rispetto a quelli richiesti da un bambino sano, di dover sopperire alle ingenti spese di cura e di assistenza, opti per l’interruzione della gravidanza, al fine di non compromettere la sua esistenza, nella duplice dimensione individuale e di coppia, e quella del concepito.

La prospettiva di dover stravolgere completamente il programma della propria vita familiare alla nascita di un bimbo malformato, può generare, invero, un sentimento di rifiuto di una realtà non voluta, non desiderata e non accettata, che può tradursi verosimilmente nel pericolo di insorgenza di una sindrome depressiva della gestante, tale da giustificare la sua scelta di interrompere la gravidanza.

Il quesito che ci poniamo allora è: esiste un diritto del nascituro a non nascere se non sano? O, piuttosto, il diritto del nascituro a nascere sano? Il nascituro è un soggetto di diritto?

Per rispondere a tali quesiti, ritengo utile ed opportuno richiamare il caso scrutinato dagli Ermellini, Terza Sezione Civile, con la sentenza n. 16754 del 2 ottobre 2012[2]: la gestante aveva espressamente manifestato al ginecologo la propria volontà di sottoporsi a tutti gli esami necessari per accertare l’eventuale presenza di malformazioni fetali, da cui avrebbe fatto dipendere la propria decisione di interrompere la gravidanza. Il ginecologo aveva sottoposto la gestante al Tritest, senza informarla della debolezza statistica dello stesso ed omettendo, altresì, di prospettare l’esistenza di altri esami diagnostici, certamente più invasivi e rischiosi, che avrebbero, tuttavia, consentito di diagnosticare con maggiore attendibilità scientifica la presenza nel feto della sindrome di Down da cui, poi, la bambina è risultata affetta alla nascita.

Ai fini della problematica che ci occupa, la sentenza in esame va segnalata poiché costituisce la chiave di volta verso il definitivo superamento del dogma della irrisarcibilità del c.d. danno da nascita malformata anche in favore del nascituro, ancorché la fattispecie venga sussunta dagli Ermellini sub speciedi illecito aquiliano ex art. 2043 c.c. (e, dunque, non del contratto con effetti protettivi a favore del terzo).

In altri termini, per la prima volta viene riconosciuta la legittimazione attiva del neonato in proprio ad un’azione risarcitoria nei confronti del medico, che abbia omesso di rilevare la sua malformazione genetica ed abbia in tal modo precluso alla madre l’esercizio del diritto di interrompere la gravidanza, pur avendo la stessa manifestato espressamente, contestualmente alla richiesta dell’esame diagnostico, la propria volontà di non portare a termine la gravidanza nell’ipotesi di risultato positivo del Tritest.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale tradizionale, la risarcibilità del danno da nascita malformata in proprio del neonato veniva esclusa e veniva limitato l’esercizio del relativo diritto piuttosto alla madre ed al padre del bimbo malformato, per una serie di argomentazioni, che scandiscono l’iter logico – giuridico della sentenza della Cassazione n. 14488/2004:

a) nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute della donna e il valore (e la tutela) del concepito, l’ordinamento consente alla madre di autodeterminarsi, ricorrendone le condizioni richieste ex lege, a richiedere l’interruzione della gravidanza. La sola esistenza di malformazioni del feto che non incidano sulla salute o sulla vita della donna non permettono alla gestante di praticare l’aborto: il nostro ordinamento non ammette, dunque, l’aborto eugenetico e non riconosce né alla gestante né al nascituro, una volta nato, il diritto al risarcimento dei danni per il mancato esercizio di tale diritto (della madre);

b) la legge n. 194 del 1978 consente invece alla gestante d’interrompere la gravidanza solo quando dalla prosecuzione della gestazione possa derivare, anche in previsione di anomalie o malformazioni del concepito, un reale pericolo per la sua salute fisica o psichica, ovvero per la sua vita;

c) prevale, in seno agli ordinamenti stranieri, la tendenza a rigettare la domanda proposta in proprio dal nato malformato e ad accogliere quella dei genitori relativamente ai danni patrimoniali e non patrimoniali; peraltro, la Corte di Cassazione francese in assemblea plenaria, nel celebre arrét Perruche del 27.11.2001, operando un revirement rispetto alla precedente giurisprudenza, affermò che, “quando gli errori commessi da un medico e dal laboratorio in esecuzione del contratto concluso con una donna incinta impedirono a quest’ultima di esercitare la propria scelta di interruzione della gravidanza, al fine di evitare la nascita di un bambino handicappato, questi può domandare il risarcimento del danno consistente nel proprio handicap, causato dai predetti errori”. A tale pronuncia fece immediato seguito l’intervento del legislatore (loi Kouchner 303/2002), che escluse qualsivoglia pretesa risarcitoria dell’handicappato per il solo fatto della nascita “quando l’handicap non è stato provocato, aggravato o evitato da errore medico”;

d) la tutela giuridica del nascituro, pure prevista dal nostro ordinamento, è peraltro regolata in funzione del diritto del concepito a nascere (sano), mentre un eventuale diritto a non nascere sarebbe un diritto adespota in quanto, a norma dell’art. 1 c.c., la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, ed i diritti che la legge riconosce a favore del concepito (artt. 462, 687, 715 c.c.) sono subordinati all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita. Nella fattispecie, invece, il diritto di non nascere, fino alla nascita, non avrebbe un soggetto titolare dello stesso, mentre con la nascita sarebbe definitivamente scomparso;

e) sotto altro profilo, ma nella stessa ottica, ipotizzare il diritto del concepito malformato di non nascere significa concepire un diritto che, solo se viene violato, ha, per quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di non nascere), non vi è mai un titolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai la possibilità di esercitarlo (non esisterebbe un soggetto legittimato a farlo valere): non può farlo valere, ovviamente, il concepito, ancora non nato; non potrebbe farlo valere, altrettanto ovviamente, il medico; non potrebbe essere esercitato neppure dalla gestante. Il suo diritto all’aborto non ha, infatti, una propria autonomia, per quanto relazionata all’esistenza o meno delle malformazioni fetali, come invece nella legislazione francese, ma si pone in una fattispecie di tutela del diritto alla salute: il diritto che ha la donna è solo quello di evitare un danno serio o grave, a seconda delle ipotesi temporali, alla sua salute o alla sua vita. Per esercitare detto diritto, nel bilanciamento degli interessi, l’ordinamento riconosce la possibilità alla donna di interrompere la gravidanza, ed è la necessità della tutela della salute della madre che legittima la stessa alla (richiesta di) soppressione del feto scriminandola da responsabilità (se l’interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978, accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8, costituisce reato anche per la stessa gestante ex art. 19 stessa legge);

f) il nostro ordinamento positivo tutela il concepito – e quindi l’evoluzione della gravidanza – esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui, se di diritto vuol parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere;

g) va poi osservato che, se esistesse detto diritto a non nascere se non sano, se ne dovrebbe ritenere l’esistenza indipendentemente dal pericolo per la salute della madre derivante dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore problema, in assenza di normativa in tal senso, di quale sarebbe il livello di handicap per legittimare l’esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto livello è legittimante della non nascita. Infatti, anche se non vi fosse pericolo per la salute della gestante, ogni qual volta vi fosse la previsione di malformazioni o anomalie del feto, la gestante, per non ledere questo presunto diritto di “non nascere se non sani”, avrebbe l’obbligo di richiedere l’aborto, altrimenti si esporrebbe ad una responsabilità (almeno patrimoniale) nei confronti del nascituro una volta nato. Quella che è una legge per la tutela sociale della maternità e che attribuisce alla gestante un diritto personalissimo, in presenza di determinate circostanze, finirebbe per imporre alla stessa l’obbligo dell’aborto (salvo l’alternativa di esporsi ad un’azione per responsabilità da parte del nascituro).

Un primo tentativo di riconoscere una qualche legittimazione attiva al neonato malformato si è avuto con la sentenza della Cassazione n. 10741/09[3], la quale, argomentando dalla clausola generale della centralità della persona, quale principio ispiratore della Costituzione e, più in generale, del sistema ordinamentale nazionale, comunitario ed internazionale, ha riconosciuto al nascituro/concepito una soggettività giuridica, distinta dalla capacità giuridica, pervenendo alla conclusione che anche il nascituro è titolare dei diritti fondamentali ed inviolabili garantiti dall’art. 2 Cost., quali il  diritto alla vita, alla salute, all’integrità psico-fisica, all’onore, alla reputazione, all’identità personale, diritti azionabili, tuttavia, solo successivamente alla nascita, poiché ai sensi dell’art. 1 c.c. con la nascita si acquista la capacità giuridica. In virtù di una declamata autonoma soggettività giuridica del concepito, la Cassazione con la citata sentenza ha affermato, dunque, il principio di diritto secondo il quale,  al suo “diritto a nascere sano” corrisponde l’obbligo dei sanitari di risarcirlo per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine ai possibili rischi teratogeni conseguenti alla terapia prescritta alla madre, sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso. Secondo l’impostazione offerta da questa pronuncia, il diritto del concepito al risarcimento è condizionato, quanto alla titolarità, all’evento nascita ex art. 1, comma 2, c.c., ed è azionabile dagli esercenti la potestà, facendo ricorso alla figura del contratto con effetti protettivi a favore del terzo, poiché il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi anche nei confronti del nascituro. Resta esclusa, tuttavia, la legittimazione del nascituro ad agire in via risarcitoria per il pregiudizio derivante dall’omessa diagnosi e/o dalla omessa informazione, da parte del medico, alla madre circa la sua malformazione, attesa l’inconfigurabilità nel nostro ordinamento di un diritto del concepito a non nascere se non sano.

Una chiave di lettura completamente differente, viene invece proposta dalla successiva sentenza della Cassazione n. 16754/2012, già citata, che ha il pregio di riconoscere per la prima volta al neonato malformato la legittimazione attiva ad agire iure proprio per il risarcimento del danno cagionato dalla condotta colposa del medico, che abbia omesso di informare adeguatamente la madre delle rilevanti malformazioni di cui il feto era affetto, precludendo alla gestante la prerogativa di interrompere la gravidanza, pur in presenza dei presupposti di legge.

La Suprema Corte con la citata sentenza abbandona la prospettiva del riconoscimento in capo al nascituro di una soggettività giuridica autonoma e distinta dalla capacità giuridica, affermando che il concepito debba essere considerato, piuttosto, oggetto di tutela fino alla nascita, divenendo con la nascita un soggetto di diritto nuovo ed autonomo, il quale può agire iure proprio, per il tramite del suo rappresentante legale, per il risarcimento del danno eziologicamente riconducibile all’errore medico. Tale legittimazione attiva è legata alla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione col feto, non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso.

L’iter logico-giuridico che scandisce il ragionamento della Corte si snoda attraverso alcuni passaggi argomentativi: si afferma, infatti, che la soggettività è un’astrazione normativa funzionale all’imputazione di situazioni giuridiche sia attive che passive, ma non appare seriamente predicabile l’attuale esistenza, in capo al concepito, dei pur rinvenuti “interessi personali quali il diritto all’onore, alla reputazione, all’identità personale”, situazioni soggettive che presuppongono una dimensione di relazioni sociali (la reputazione, l’identità personale) ovvero una consapevolezza di sé (l’onore), che, ipso facto, difettano tout court al concepito sul piano naturalistico prima ancora che su quello giuridico. “Chi nasce malato” – prosegue la S.C. – “per via di un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il concepimento non fa, pertanto, valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né tantomeno un diritto a non nascere. Fa valere, ora per allora, la lesione della sua salute, originatasi al momento del concepimento. Oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quotidiana) il perdurante e irredimibile stato di infermità. Non la nascita non sana. O la non nascita”.

La legittimazione attiva del minore malformato discende, dunque, non da una sua declamata soggettività giuridica, ma da quella che è stata definita la “propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito”, consistente nella ingiusta lesione del diritto della madre ad una procreazione cosciente e responsabile, cagionata dall’omessa diagnosi e/o dalla omessa informazione della malformazione fetale e, quindi, dalla condotta colposa del medico, i cui effetti lesivi si estendono anche al nascituro.

Oggetto della tutela risarcitoria è, per mutuare le espressioni utilizzate dagli Ermellini nella citata sentenza, “la condizione evolutiva di un’esistenza handicappata”, considerata in una proiezione dinamica, che non è data dalla somma algebrica di vita + handicap, ma è “sintesi generatrice di una vita handicappata”. In altri termini, ciò che va risarcito è un’esistenza menomata, una vita meno agevole, che merita di essere rispettata e vissuta comunque dignitosamente, e che va alleviata in via risarcitoria, non potendo il bambino nato malformato esplicare appieno la propria personalità, sia nella dimensione individuale che in quella familiare, sociale e relazionale, secondo i migliori auspici della nostra Costituzione. Ed infatti, il vulnus lamentato da parte del minore malformato è, innanzitutto, la lesione del suo diritto alla salute, presidiato dall’art. 32 Cost., intesa come condizione dinamico/funzionale di benessere psico-fisico; ma anche “la violazione della più generale norma dell’art. 2 Cost., apparendo innegabile la limitazione del diritto del minore allo svolgimento della propria personalità sia come singolo sia nelle formazioni sociali; dell’art. 3 della Costituzione, nella misura in cui si renderà sempre più evidente la limitazione al pieno sviluppo della persona;  degli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione”, poiché “l’arrivo del minore in una dimensione familiare «alterata» …  impedisce o rende più ardua la concreta e costante attuazione dei diritti-doveri dei genitori sanciti dal dettato costituzionale, che tutela la vita familiare nel suo libero e sereno svolgimento sotto il profilo dell’istruzione, educazione, mantenimento dei figli”.

Per compiutezza espositiva, segnalo come lo stesso bilanciamento tra l’interesse del concepito, da un lato, e quello della futura gestante, dall’altro, ispira l’impianto normativo della Legge 19.02.2004, n. 40, recante “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita” e, in particolare, le disposizioni contenute nell’art. 14, che disciplinano la fecondazione in vitro ed il trasferimento di embrioni. L’art. 1 della Legge citata consente alle coppie il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, nei casi di sterilità o di infertilità, “alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.

Evidenti sono, dunque, le analogie ed il parallelismo tra la L. n. 194/1978 e la L. n. 40/2004. Tuttavia, mentre nella Legge n. 194/1978 la tutela del diritto alla salute fisica e psichica della donna può giustificare il sacrificio della vita del concepito, nella Legge n. 40/2004, secondo l’impianto normativo originario, la tutela dell’embrione e della donna sono sullo stesso piano. E in applicazione del principio di piena ed eguale tutela del concepito, vengono disposte nel capo VI della legge, “misure di tutela dell’embrione”, che comprendono il “divieto di sperimentazione su embrioni” (art. 13) e “limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni” (art. 14).

Ho parlato poc’anzi di impianto normativo originario della L. n. 40/2004, poiché proprio in tema di “misure di tutela dell’embrione”, la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza 8 maggio 2009 n. 151, stabilendo nuovi equilibri tra tutela del diritto alla salute della donna e protezione dell’embrione: la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, della L. n. 40/2004, per violazione degli artt. 3 e 32 Cost., nella parte in cui, fermo restando che le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario, limitava tale numero a quello necessario “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”; ha dichiarato, altresì, incostituzionale l’art. 14, comma 3, della stessa legge nella parte in cui non prevedeva che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile come stabilisce tale norma, dovesse essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna. La Consulta muove dalla premessa secondo cui, a dispetto delle proclamazioni di principio contenute nell’art.1, la tutela che la Legge n. 40/2004 assicura all’embrione non è “assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione”. Ciò risulta evidente se si considera che “la legge in esame rivela – come sottolineato da alcuni dei rimettenti – un limite alla tutela apprestata all’embrione, poiché anche nel caso di limitazione a soli tre del numero di embrioni prodotti, si ammette comunque che alcuni di essi possano non dar luogo a gravidanza, postulando la individuazione del numero massimo di embrioni impiantabili appunto un tale rischio, e consentendo un affievolimento della tutela dell’embrione al fine di assicurare concrete aspettative di gravidanza, in conformità alla finalità proclamata dalla legge … Ciò posto, deve rilevarsi che il divieto di cui al comma 2 dell’art. 14 determina, con la esclusione di ogni possibilità di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, e comunque superiore a tre, la necessità della moltiplicazione dei cicli di fecondazione (in contrasto anche con il principio, espresso all’art. 4, comma 2, della gradualità e della minore invasività della tecnica di procreazione assistita), poiché non sempre i tre embrioni eventualmente prodotti risultano in grado di dare luogo ad una gravidanza. Le possibilità di successo variano, infatti, in relazione sia alle caratteristiche degli embrioni, sia alle condizioni soggettive delle donne che si sottopongono alla procedura di procreazione medicalmente assistita, sia, infine, all’età delle stesse, il cui progressivo avanzare riduce gradualmente le probabilità di una gravidanza. Il limite legislativo in esame finisce, quindi, per un verso, per favorire – rendendo necessario il ricorso alla reiterazione di detti cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non dia luogo ad alcun esito – l’aumento dei rischi di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate; per altro verso, determina, in quelle ipotesi in cui maggiori siano le possibilità di attecchimento, un pregiudizio di diverso tipo alla salute della donna e del feto, in presenza di gravidanze plurime, avuto riguardo al divieto di riduzione embrionaria selettiva di tali gravidanze di cui all’art. 14, comma 4, salvo il ricorso all’aborto. Ciò in quanto la previsione legislativa non riconosce al medico la possibilità di una valutazione, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, del singolo caso sottoposto al trattamento, con conseguente individuazione, di volta in volta, del limite numerico di embrioni da impiantare, ritenuto idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita, riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto … La previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si sottopone alla procedura di procreazione medicalmente assistita, si pone, in definitiva, in contrasto con l’art. 3 Cost., riguardato sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili; nonché con l’art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della donna – ed eventualmente, come si è visto, del feto – ad esso connesso. Deve, pertanto, dichiararsi la illegittimità costituzionale dell’art. 14 comma 2, della legge n. 40 del 2004 limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». L’intervento demolitorio mantiene, così, salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario, secondo accertamenti demandati, nella fattispecie concreta, al medico, ma esclude la previsione dell’obbligo di un unico e contemporaneo impianto e del numero massimo di embrioni da impiantare, con ciò eliminando sia la irragionevolezza di un trattamento identico di fattispecie diverse, sia la necessità, per la donna, di sottoporsi eventualmente ad altra stimolazione ovarica, con possibile lesione del suo diritto alla salute. Le raggiunte conclusioni, che introducono una deroga al principio generale di divieto di crioconservazione di cui al comma 1 dell’art. 14, quale logica conseguenza della caducazione, nei limiti indicati, del comma 2 – che determina la necessità del ricorso alla tecnica di congelamento con riguardo agli embrioni prodotti ma non impiantati per scelta medica – comportano, altresì, la declaratoria di incostituzionalità del comma 3, nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna”.

Il 28 agosto 2012 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo è intervenuta nel caso Costa e Pavan contro l’Italia, nel quale i ricorrenti, portatori sani di fibrosi cistica, avevano richiesto di poter accedere alla fecondazione assistita e alla diagnosi pre-impianto pur non essendo una coppia sterile, presupposto richiesto dalla Legge n. 40/2004.

La Corte Europea ha affermato che il divieto di accesso alla diagnosi pre-impianto costituisce una violazione dell’art. 8 della Convenzione che testualmente dispone: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare … 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria … alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. In particolare, a parere della Corte, l’ingerenza è certamente “prevista dalla legge” e può ritenersi intesa al perseguimento degli scopi legittimi di tutela della morale e dei diritti e delle libertà altrui, ma deve, tuttavia, ritenersi incoerente, se si considera la possibilità offerta alle coppie di procedere ad un aborto terapeutico qualora il feto risulti malato e tenuto conto, in particolare, delle conseguenze che ciò comporta sia per il feto, il cui sviluppo è evidentemente assai più avanzato di quello di un embrione, sia per la coppia di genitori, soprattutto per la donna: argomentazione questa che porta i Giudici soprannazionali ad escludere la funzionalità del divieto imposto dall’art. 4 della L. n. 40/2004 – che di fatto si risolve nell’incoraggiamento del ricorso all’aborto del feto anziché ammettere la selezione dell’embrione prima dell’impianto nell’utero-, rispetto allo scopo perseguito dalla stessa legge consistente nella tutela del nascituro. Da tale premessa logico-giuridica discende l’irragionevolezza del divieto, imposto dall’art. 4 della L. n. 40/2004, alle coppie non affette da sterilità e che siano portatrici di malattia ereditaria suscettibile di essere trasmessa al concepito, ad accedere alla procreazione medicalmente assistita e segnatamente alla tecnica della fecondazione in vitro con selezione dagli embrioni attraverso la diagnosi pre-impianto. Ammissibile, dunque, secondo la Corte Europea, a pena di incoerenza dell’intero sistema normativo, la diagnosi pre-impianto sugli embrioni da trasferire in utero, in funzione della salvaguardia della salute della donna, analogamente a quanto avviene per l’aborto a presidio del diritto ad una procreazione cosciente e responsabile[4].

Richiamando il decisum della CEDU del 28 agosto 2012, il Tribunale di Cagliari, con ordinanza del 9 novembre 2012, ritenendo possibile una interpretazione adeguatrice delle norme interne e, segnatamente dell’art. 13, comma 1 (che sancisce, in linea di principio, il divieto di qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano) e comma 2 (che, quale eccezione alla stessa regola, ammette la possibilità di effettuare la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative), nonchè dell’art. 14, comma 5, della L. n. 40/2004 che riconosce il diritto dei futuri genitori ad essere adeguatamente informati sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero, ha ritenuto ammissibile la diagnosi pre-impianto ed ha accolto il ricorso proposto dalla coppia, di cui era stata accertata la condizione di infertilità. Nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale sardo, la donna era affetta da talassemia major, l’uomo era portatore sano della medesima patologia, di talchè i ricorrenti avevano richiesto ai presidi pubblici, cui si erano rivolti per accedere alla procreazione medicalmente assistita, di procedere ad indagine clinica sull’embrione da impiantare, atteso che la loro condizione comportava il rischio, pari al 50%, di generare un figlio con la stessa malattia.

Tale ordinanza si inserisce, invero, nel solco giurisprudenziale già tracciato dal 2007, che il Tribunale sardo delinea attraverso il richiamo a precedenti conformi, ed in particolare: ad un’ordinanza dello stesso Tribunale di Cagliari del 24 settembre 2007, ad un provvedimento del Tribunale di Firenze del 17 dicembre 2007, ad un altro del Tribunale di Bologna del 29 giugno 2009 e, da ultimo, ad un’ordinanza del Tribunale di Salerno del 9 gennaio 2010, che, rispetto ai provvedimenti precedenti, ha introdotto un elemento di novità, ritenendo ammissibile la diagnosi pre-impianto sull’embrione anche per le coppie fertili, che presentino un rischio qualificato di trasmissione di malattie gravi ed inguaribili.

Di recente, poi, il Tribunale di Roma, Sezione Famiglia, con provvedimento del 26 settembre 2013 ha accolto il ricorso proposto ex art. 700 c.p.c. da una coppia di coniugi, entrambi portatori sani di fibrosi cistica, che si erano visti opporre dal Centro medico, cui si erano rivolti, il rifiuto di procedere a procreazione medicalmente assistita con diagnosi pre-impianto dell’embrione da trasferire in utero, in quanto coppia non sterile. Nel caso de quo i coniugi avevano già trasmesso la patologia di cui erano portatori sani alla prima figlia; nel desiderio di avere un secondo figlio, attesi gli esiti negativi di una seconda spontanea gravidanza che la moglie era stata costretta ad interrompere con un aborto terapeutico, essendo il feto risultato anch’esso affetto dalla suddetta patologia, i coniugi, a fronte del divieto di accesso alla tecnica di procreazione medicalmente assistita per le coppie che non siano sterili o infertili sancito dall’art. 4 della L. n. 40/2004, avevano presentato, in data 16.09.2010, ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per sentir accertare l’illegittimità della norma de qua. Si tratta del caso Costa-Pavan contro l’Italia, deciso della Corte Europea dei diritti umani con la citata sentenza del 28.8.2012, divenuta definitiva in data 11.02.2013.

Secondo il Tribunale di Roma è pacifico che la coppia ha diritto a ricevere una completa informativa funzionale ad una procreazione libera e consapevole e la diagnosi prei-mpianto ha come scopo proprio quello di consentire alla donna una decisione informata e consapevole in ordine al trasferimento degli embrioni formati ovvero al rifiuto di detto trasferimento. E’ attraverso la suddetta diagnosi che viene tutelato, tanto il diritto all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti, quanto, al contempo il diritto alla salute psico-fisica della futura gestante, essendo innegabile che gli embrioni affetti da gravi patologie genetiche possano seriamente determinare una prosecuzione patologica della gravidanza, compromettendo l’integrità psico-fisica donna, quale effetto della malformazione del concepito, creandosi un sostanziale parallelismo con la disciplina contemplata dalla legge sull’aborto che consente alla donna di procedere all’interruzione della gravidanza in tutti i casi in cui il parto o la maternità comportino un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica o anche in relazione a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, in tale specifico caso anche dopo il decorso dei primi 90 giorni, ancorché a condizioni più restrittive.

Quella del Tribunale di Roma è stata definita una pronuncia “storica”, poiché nessuno dei precedenti conformi innanzi citati, così come neppure l’ordinanza resa dal Tribunale di Cagliari in forma di provvedimento ex art. 700 c.p.c. in data 9.11.2012, aveva affrontato la problematica relativa all’accesso alla procreazione medicalmente assistita da parte di coppie che non presentassero problemi di infertilità o sterilità, ad eccezione del Tribunale di Salerno che, con la richiamata ordinanza del 9 gennaio 2010, aveva ritenuto, malgrado l’espresso tenore della littera legis, di superarne in via interpretativa la formulazione testuale, sostenendo che non solo la legge non prevede alcuna sanzione nei confronti del medico che pratichi la procreazione medicalmente assistita a favore di coppie non sterili, ma che comunque la diagnosi pre-impianto tutela il diritto fondamentale e personalissimo di entrambi i genitori di autodeterminazione nelle scelte procreative, indipendentemente dalla sussistenza di problematiche afferenti la sterilità.

Il Tribunale di Roma è pervenuto alle medesime conclusioni, non limitandosi, tuttavia, ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme della L. n. 40/2004, bensì disapplicando l’art. 4, comma 1, della L. n. 40/2004,  in ragione della portata precettiva della sentenza definitiva della CEDU. Il Giudice romano si è allineato all’orientamento espresso sul punto dalla Corte di Cassazione con sentenza 30.9.2011 n. 19985. La S.C. ha affermato che la portata precettiva delle sentenze CEDU, sancita dall’art. 46 della Convenzione (secondo cui “Le Alte parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie delle quali sono parti”), al pari delle norme materiali convenzionali, esclude che il Giudice interno, il quale ha la concreta disponibilità di incidere sulla fattispecie concreta, possa “ignorare e svuotare di contenuto il decisum definitivo della Corte Europea, anche se si tratta di condanna dello Stato a titolo di equa soddisfazione per la quale non vi è bisogno di alcun exequatur e di fronte alla quale lo Stato condannato non ha altra scelta se non quella di pagare“.

In altri termini, la Cassazione ha sancito la natura precettiva delle norme della Convenzione Europea con il  conseguente obbligo per il Giudice dello Stato di applicare direttamente la norma pattizia, precisando che la decisione definitiva della Corte EDU abbia “nell’ambito interno, e in relazione al procedimento, valore assimilabile al giudicato formale, ovvero valevole per il solo procedimento in corso ed, in quanto tale, con ovvia ricaduta sulla situazione che è chiamato ad affrontare, in quanto presupposto logico – giuridico delle relative problematiche che è chiamato a risolvere“. Decisione questa pienamente in linea con l’interpretazione già adottata nel 2005 dalle Sezioni Unite della stessa Cassazione secondo cui, come ancor più esplicitamente affermato “la natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali a seguito della ratifica dello strumento di diritto internazionale comporta la natura sovraordinata delle norme della Convenzione, sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna con la norma pattizia, dotata di immediata precettività nel caso concreto” (Cass., S.U. 23.12.2005, n. 28507).

Ne discende  che il Giudice comune sia chiamato a dar seguito alle decisioni di condanna del Giudice europeo senza necessità di sollevare l’ulteriore pregiudiziale di costituzionalità, ogni qualvolta la regola ricavabile dalla sentenza CEDU sia sufficientemente precisa ed incondizionata da sostituirsi, senza margini di ambiguità, a quella interna riconosciuta contraria alla Convenzione, laddove la rimessione alla Corte Costituzionale dovrà essere limitata alle sole questioni che, pur in presenza di una regola CEDU autoapplicativa, evidenzino un possibile contrasto tra quest’ultima e i principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Il che vale a fortiori nel caso in esame in cui, trattandosi delle stesse parti che hanno adito la Corte EDU ottenendo l’accoglimento del ricorso, le statuizioni della Corte di Strasburgo, proprio perché direttamente efficaci nell’ordinamento nazionale, rivestono valore di giudicato formale per il processo interno (conclusione questa indirettamente confermata anche dalla recentissima sentenza della Corte Costituzionale 3.7.2013 n. 210, in cui si precisa che allorquando la sentenza della Corte Europea cui occorre conformarsi implica l’illegittimità costituzionale di una norma nazionale, allorquando la pronuncia della Corte sia specifica, debba darsene esecuzione diretta da parte del Giudice nazionale senza sollevare questione di illegittimità costituzionale).

Ciò premesso, argomenta il Tribunale di Roma, “poiché l’unico vaglio cui questo Giudice è chiamato è costituito dalla conformità del principio applicabile secondo la Corte Europea all’ordinamento costituzionale, deve ritenersi che alla suddetta sentenza possa darsi immediata esecuzione. Invero il principio secondo il quale il divieto di accesso dei coniugi Co. – Pa., in quanto portatori sani di grave malattia ereditaria e come tale trasmissibile al concepito, alla PMA attraverso la selezione pre – impianto degli embrioni è in contrasto con l’art. 8 CEDU, si allinea con l’interpretazione data dalla Corte Costituzionale alla L. 40/2004, con la citata sentenza 151/2009 che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 14, II e III comma, secondo la quale la tutela apprestata dalla novella all’embrione non è assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento tra la tutela delle esigenze della procreazione ed il diritto alla salute della donna sotto il profilo sia fisico sia psichico ed eventualmente del feto, fermo restando il rispetto del limite che le acquisizioni scientifiche, chiamato ad applicare le quali è soltanto il medico che opera in concreto le necessarie scelte professionali, pongono alla discrezionalità legislativa: al che consegue che la selezione, mediante diagnosi pre – impianto, degli embrioni non affetti dalla patologia di cui entrambe le parti sono portatrici trova la sua piena legittimità, assolvendo non già a finalità di selezione della specie, bensì alla necessità di tutela della madre evidenziata dalla stessa Corte Costituzionale. Non soltanto l’illegittimità dell’art. 4, I comma, L. 40/2004 affermata dalla Corte Europea non si pone sotto alcun profilo in contrasto con i principi consacrati nella Costituzione italiana, ma, al contrario, è proprio il divieto di accesso alla PMA per le coppie fertili e al contempo trasmettitrici di gravi malattie ereditarie a porsi in assoluta dissonanza con il diritto alla salute consacrato nella Carta Fondamentale tra i diritti assoluti (art. 32 Cost.), non essendosi il Legislatore del 2004 fatto carico di prendere in esame quello stesso «pericolo per la salute psico – fisica della donna» che pure quasi 30 anni addietro aveva ritenuto, con la legge 194/1978, causa legittimante l’interruzione della gravidanza che, ove eseguita oltre i 90 giorni, così come è previsto nelle ipotesi di anomalie o malformazioni del nascituro, non è neppure più tecnicamente configurabile come «aborto» realizzandosi invece attraverso un vero e proprio intervento chirurgico. Sulla scorta delle sovraesposte considerazioni, devono pertanto escludersi i presupposti necessari a sollevare questione di illegittimità costituzionale in relazione alla norma in esame”.

Concludendo: la salute e la vita della donna e del nascituro sono valori, in linea di principio, “assoluti”, ed ormai ben possono considerarsi tutelati dalla migliore giurisprudenza nazionale ed europea, che, attraverso una costante opera di esegesi sistematica, evolutiva ed adeguatrice del dato normativo interno a quello sovranazionale, plasma il diritto e lo attualizza alla realtà storica ed al contesto sociale del momento, delineando delicati equilibri nel bilanciamento tra interessi confliggenti. Non si può, tuttavia, non rilevare come la tutela apprestata alla posizione giuridica di colui qui in utero est sia comunque una tutela affievolita, perdurando ancora oggi il convincimento, espresso dalla Consulta nel 1975, della non equivalenza, sotto il profilo rigorosamente giuridico, fra il diritto alla vita ed il diritto alla salute proprio di chi già è persona, come la madre, e la salvaguardia del concepito che persona deve ancora diventare.

Avv. Emanuela PALAMA’


[1] Relazione tenuta nel corso del Convegno “L’indisponibilità dei diritti nella famiglia e i limiti dell’autonomia negoziale” organizzato dall’AMI – Sezione distrettuale di Lecce e svoltosi in Lecce il 22.11.2013 presso le Officine Cantelmo.

[2] Questa sentenza si segnala poiché ha affermato il principio di diritto, secondo il quale “la responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre (come già affermato da Cass. n. 14488/2004 e prima ancora da Cass. 6735/2002), nonché, a giudizio del collegio, alla stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta”. Superando l’orientamento tradizionale sfavorevole al riconoscimento di una legittimazione attiva del padre del nascituro, affetto da una malformazione non diagnosticata, a promuovere un’azione risarcitoria, la giurisprudenza ha rilevato che il rapporto contrattuale (o da contatto sociale qualificato) intercorrente tra la gestante ed il ginecologo è riconducibile sotto il profilo dogmatico al contratto con effetti protettivi a favore del terzo, figura di elaborazione giurisprudenziale tedesca che trova applicazione nel nostro ordinamento in base al combinato disposto degli artt. 1372, c.2, c.c. e 1411 c.c., norma, quest’ultima, che introduce la disciplina del contratto a favore del terzo. Si è, pertanto, sostenuto che se è normativamente prevista una fattispecie negoziale, in virtù della quale da un contratto inter alios possano derivare effetti a favore di un terzo, purché ad esso favorevoli, è ben possibile configurare che da un rapporto intercorrente direttamente tra due parti sorga il diritto del terzo a non essere danneggiato dalle conseguenze pregiudizievoli di un inadempimento contrattuale. Del resto, il sanitario assume, non solo un obbligo di cura verso la paziente al medesimo affidata, ma anche una serie di c.d. obblighi di protezione nei confronti di tutti i soggetti legati alla donna da un rapporto di proximitas, che gli impongono di evitare che da una propria condotta colposa, non improntata ai canoni della perizia e della diligenza qualificata, possa derivare un pregiudizio ai beni primari di cui i medesimi sono titolari, quali il diritto alla vita, alla salute, all’integrità psico-fisica. Il padre del nascituro affetto da una malformazione, infatti, completamente ignaro di tale anomalia, programma la sua vita familiare riflettendo sui propri doveri genitoriali, senza preventivare e, per così dire, mettere in conto che la sua vita familiare sarà completamente stravolta dalla presenza di un bimbo malformato. Tanto è vero che, ai fini della individuazione dei danni risarcibili, la giurisprudenza, oltre al danno patrimoniale liquidabile in un’unica soluzione al padre ed alla madre, consistente nell’esborso del denaro necessario per le spese di assistenza sanitaria del figlio portatore di handicap, ha riconosciuto un danno che se non esclusivamente, è sostanzialmente esistenziale, poiché la nascita malformata imputabile all’omessa diagnosi del medico implica un “rovesciamento dell’agenda” della vita familiare (cfr. Cass. n. 13/2010), ossia un inevitabile e consistente peggioramento dell’esistenza quotidiana, che la donna avrebbe voluto e potuto evitare, se soltanto messa nella condizione di esercitare il diritto ad una maternità consapevole e responsabile, preclusa, invece, dalla condotta colposa del ginecologo che ha omesso l’accertamento diagnostico della malformazione ovvero una idonea informazione (ai fini del consenso informato) alla gestante dell’accertata malformazione fetale. Tale voce di danno non patrimoniale, che le diverse pronunce giurisprudenziali evitano di qualificare alla stregua di danno biologico, esistenziale o morale, in ossequio agli insegnamenti espressi dalle Sezioni Unite della Cassazione con le note sentenze nn. 26972 e 26974 del S. Martino del 2008, viene riconosciuta anche al padre, nonché ai fratelli e/o sorelle del nascituro, “danno intanto consistente, tra l’altro …  nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono invece non sempre compatibili con lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno fortunato” (Cass. n. 12754/2012 cit.).

La responsabilità del sanitario per l’omessa diagnosi e/o omessa informazione alla gestante di una malformazione fetale e la conseguente nascita di un bambino non sano – secondo il criterio della c.d. regolarità causale – può configurarsi in tutti i casi in cui la donna alleghi la circostanza che l’accertamento e la comunicazione, colposamente omessi dal medico, circa la presenza di una malformazione fetale avrebbe determinato la stessa, secondo il criterio del “più probabile che non”, ad interrompere la gravidanza, presumendosi la ricorrenza dei presupposti previsti dalla L. n. 194/1978, quali condizioni dell’aborto. Sarebbe, invece, necessario fornire la prova, e non limitarsi alla mera allegazione di siffatta circostanza, quando questa sia oggetto di contestazione ad opera della controparte, incombendo sull’attrice, che agisca per il risarcimento dei danni  conseguenti alla nascita malformata riconducibili all’omessa diagnosi e/o alla omessa informazione circa la malformazione fetale, dimostrare che l’acquisizione di tale informazione avrebbe determinato sul piano della causalità ipotetica l’insorgenza di una patologia psico-fisica nella donna (cfr.  Cass. civ., Sez. III, 10 novembre 2010, n. 22837 e da ultimo  Cass. n. 16754/12 cit.). Va, tuttavia, precisato che secondo altro orientamento della Suprema Corte (Cass., 2 febbraio 2010, n. 2354) quando siano decorsi più di novanta giorni dal concepimento, la donna è sempre tenuta a dimostrare che, ove consapevolmente informata dal sanitario della presenza di una malformazione fetale, avrebbe interrotto la gravidanza, poiché l’accertamento dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sia fisica o psichica. Si tratta di una valutazione ex ante (c.d. prognosi postuma), che il Giudice deve compiere caso per caso, secondo un criterio di probabilità logica e non meramente statistica, tenendo conto, altresì, della gravità della malformazione del feto e dello stadio della gravidanza, anche in ragione della circostanza che la L. n. 194/1978 modula diversamente l’esercizio del diritto della gestante all’interruzione volontaria della gravidanza, a seconda che tale scelta sia compiuta prima o dopo il decorso di novanta giorni dal concepimento. Si tratta, cioè, di acclarare se possa ritenersi certo o altamente probabile che la conoscenza della patologia del feto, al momento degli opportuni accertamenti, avrebbe determinato un grave pericolo alla salute della madre. Si è, quindi, in presenza di un ragionamento meramente ipotetico che deve essere condotto, secondo il criterio “del più probabile che non”, alla luce delle condizioni esistenti nel momento in cui l’omissione si è consumata. Non è, dunque, rilevante accertare tanto se nella donna, dopo il parto, si siano effettivamente instaurati processi patologici pregiudizievoli per il benessere fisico o anche soltanto psichico della medesima, quanto piuttosto se la dovuta informazione avrebbe verosimilmente determinato l’insorgere degli stessi durante la gravidanza (cfr. Cassazione, Sez. III civ., 22 marzo 2013, n. 7369). L’onere probatorio potrà essere assolto dalla donna anche mediante il ricorso a presunzioni, valutabili dal Giudice secondo il suo prudente apprezzamento ai sensi dell’art. 116 c.p.c.. Pertanto, in mancanza di un’espressa dichiarazione della gestante di voler interrompere la gravidanza in presenza dell’accertamento di malformazioni fetali, non può sempre desumersi dalla sola richiesta di accertamenti diagnostici l’inferenza logica  e giuridica della volontà di interruzione della gravidanza, con la conseguenza che, in difetto di qualsivoglia ulteriore elemento che “colori” processualmente il contenuto di detta presunzione, il Giudice non può ricostruire, sulla base dell’id quod plerumque accidit, la volontà della gestante rispetto alla prosecuzione od alla interruzione della gravidanza. Ciò impone al Giudice un’attenta ed oculata disamina del caso concreto sottoposto al suo vaglio.

[3] Il caso sottoposto al vaglio della S.C. riguardava una coppia che si era rivolta ai sanitari, poiché la donna aveva problemi a rimanere incinta. I medici avevano prescritto alla donna una terapia farmacologica, senza comunicarle l’esistenza del rischio di gravi conseguenze per la salute del feto. Dopo il concepimento, poi, le avevano somministrato un diverso farmaco, che aveva provocato la malformazione del figlio.

[4] La Corte Costituzionale, con sentenza n. 80 del 07.03.2011 (e, ancor prima, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007) ha aderito alla tesi secondo cui le norme della Cedu integrino, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art.117, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. In questa prospettiva, qualora si profili un eventuale contrasto fra una norma interna ed una norma della Cedu, il Giudice nazionale deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; ove tale verifica dia esito negativo – non potendo disapplicare la norma interna contrastante – deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro.