Primo Convegno nazionale I.NA.ME.F. “DIRITTO DI DIFESA E MEDIAZIONE FAMILIARE” Roma, 04 APRILE 2014, Ateneo Pontificio “REGINA APOSTOLORUM”

RIFLESSIONI A MARGINE DEL CONVEGNO SU DIRITTO DI DIFESA E MEDIAZIONE FAMILIARE: UN’APPARENTE ANTINOMIA
(Avv. Emanuela PALAMA’)

Ho riflettuto a lungo su questa apparente antinomia: “difesa” e “mediazione familiare” evocano, in effetti, due situazioni o, meglio due approcci al conflitto di coppia, di  natura metodologica ed emotiva differenti: la “difesa” ci fa pensare all’immagine di una coppia che sugella la fine del proprio amore e della propria unione dinanzi ad un Giudice, senza guardarsi negli occhi, senza proferire reciprocamente parola alcuna se non di rabbia, sdegno e rifiuto dell’altro; la “mediazione familiare”, ci fa pensare ad una situazione differente che vede quella stessa coppia, quello stesso uomo e  quella medesima donna che si stanno separando, pur inizialmente arroccati ciascuno sulle proprie posizioni, tentare tra loro un approccio comunicativo, anche arrabbiandosi e litigando, ma, per così dire, nel modo giusto, in uno spazio neutrale, spazio nel quale quell’uomo e quella donna, guidati dal Mediatore familiare, a “dirsi delle cose”, diventano disponibili ad ascoltarsi, a comprendersi; sono in grado di parlare lo stesso linguaggio arrivando a nutrire fiducia l’uno nell’altro per decidere insieme ed in modo condiviso le sorti della propria vita e di quella dei comuni figli in quella fase e dopo l’evento separativo.

Nel nostro sistema ordinamentale esiste, invero, uno iato tra l’ambito degli strumenti predisposti a tutela delle pretese e delle istanze che ciascuna parte vuole siano soddisfatte (affidamento dei figli, assegnazione della casa coniugale, mantenimento del coniuge e della prole, contributo alle spese straordinarie, ecc.) e l’area dei bisogni e delle dinamiche emotivo-relazionali che il conflitto della coppia innesta, non solo nell’ambito della coppia medesima, bensì anche nel rapporto con i figli e con la rete parentale.

Ma diritti e bisogni non sono inconciliabili; anzi, la soddisfacente difesa di un diritto dovrebbe passare, anzitutto, attraverso la comprensione del bisogno sotteso all’istanza di tutela dello stesso. Perciò, parlavo poc’anzi di antinomia solo APPARENTE.

Albert Einstein (1879-1955) affermava che “La pace non può essere mantenuta con la forza, può essere solo raggiunta con la comprensione”.

E la comprensione dei bisogni, delle esigenze, delle richieste, delle emozioni dell’altro (dolore, rabbia, delusione) costituisce la chiave di lettura delle relazioni conflittuali interne alla famiglia fornita dalla Mediazione familiare, che sposta l’obiettivo della propria operatività dalla “risoluzione” alla “gestione” del conflitto, attraverso un percorso teso ad abbassare il livello della conflittualità nella coppia ed a valorizzare il reciproco riconoscimento delle capacità negoziali e delle competenze decisionali di ciascuna parte.

E’, dunque, nello spazio compreso tra l’ambito – proprio del Diritto -, di individuazione e regolamentazione delle posizioni giuridiche dei membri della famiglia che si sfascia, da un lato, e quello delle risposte comportamentali messe in atto dalla coppia e dai figli a fronte dell’evento separativo, dall’altro, che si colloca la Mediazione familiare.

Il percorso mediativo, infatti, muovendo dall’analisi dei bisogni della coppia, facilita e/o ripristina il canale di comunicazione interrotto tra le parti, affinché le stesse in un ambiente neutrale, possano raggiungere  personalmente, rispetto a bisogni ed interessi da loro stesse definiti, su un piano di parità ed in un clima di reciproca fiducia, un accordo direttamente e responsabilmente negoziato inerente alla riorganizzazione della propria quotidianità, successiva all’evento separativo, con particolare riguardo all’area della genitorialità.

In questa prospettiva la crisi, il conflitto e lo stesso evento separativo diventano una preziosa opportunità di cambiamento, una risorsa, anzitutto da conoscere, metabolizzare, accettare, e poi imparare a gestire; la Mediazione familiare è lo strumento per interpretare i conflitti, un’occasione per imparare a “sostare” nei conflitti, a comprendere l’altro senza sovrastarlo, un modo nuovo di ascoltarlo[1].

L’Avvocato o il Magistrato, investiti di una questione attinente alla separazione dei coniugi o al divorzio ovvero all’affidamento e al mantenimento dei figli di genitori non sposati, per quanto specializzato in materia e dotato di sensibilità e doti umane, non potrà mai “entrare” nel conflitto della coppia, poiché, nel rispetto del proprio ruolo istituzionale, si limiterà ad individuare le posizioni giuridiche e gli interessi meritevoli di tutela delle parti e dei figli, applicando la legge.

Anche nei casi di separazione consensuale o di istanze congiunte di divorzio o di regolamentazione congiunta dell’affidamento e del mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, l’accordo raggiunto attraverso l’assistenza dei propri avvocati è assai spesso frutto di compromessi, di rinunce e concessioni reciproche, più o meno condivise ma non sempre intimamente accettate da una o da entrambe le parti, poiché in tali casi la definizione dell’assetto negoziale dei propri interessi nella fase separativa viene, il più delle volte, delegata ad un terzo (Avvocati prima, Tribunale poi), tant’è che di consensuale tali accordi non hanno veramente nulla o ben poco.

Ma un accordo sulle condizioni della separazione può essere elaborato con soddisfazione e mantenuto nel tempo se è frutto di un autentico processo negoziale, nell’ambito del quale il vissuto e l’esperienza condivisa della coppia, rappresenta forse l’unica risorsa attivabile, che non sia la semplice ricerca del compromesso e dell’adattamento difensivo[2].

In altri termini, la gestione del conflitto di coppia dovrebbe avvenire mediante l’utilizzazione di un doppio binario, emotivo-affettivo e giuridico, al fine di individuare un assetto di vita realmente più adeguato a tutti i membri della famiglia in crisi, figli compresi.

Il diritto da solo non basta! Le fredde aule di Tribunale deludono assai spesso le aspettative di chi sta vivendo sulla propria pelle l’epilogo luttuoso del proprio amore!

“L’ambiente (giudiziario, n.d.r.) non accoglie, ma respinge e centuplica il disagio di chi ha già toccato il fondo o lo toccherà fra poco”, questa l’amara ma lucida considerazione espressa dall’Avv. Gian Ettore Gassani, Presidente A.M.I. (Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani), nel suo saggio “I Perplessi Sposi”[3].

Consentitemi di leggere alcuni stralci, particolarmente significativi, delle pagine di questo libro:

Come da prassi, si inizia con le separazioni consensuali, molte delle quali di consensuale non hanno niente. Procedure che durano pochi istanti, cinque minuti, forse sei. E poi il sigillo del tribunale. Pochi giorni e tutto sarà omologato, tutto finito in barba alla indissolubilità del matrimonio.

I due coniugi entrano insieme nella stanza del giudice accompagnati dai loro difensori. Tutto è già pronto da mesi, l’accordo era stato già raggiunto. Il giudice si limita a leggere le condizioni della separazione – figli, casa, soldi – come un notaio davanti a un contratto. Il tentativo di conciliazione, ultimo sforzo per salvare il matrimonio, dura cinque o sei secondi. Una farsa, una formalità, gli sprovveduti coniugi potevano pensarci prima ed evitare tutto questo. Due firme e via, avanti un’altra coppia.

Alcuni escono piangendo, altri tirano un sospiro di sollievo. In fondo anche nelle separazioni consensuali c’è sempre un coniuge che scappa e l’altro che sigla l’accordo. In un’ora le consensuali saranno tutte chiuse come i rispettivi fascicoli, uno sull’altro, tristemente in bilico al pari delle storie che contengono.

Arriva il momento delle separazioni giudiziali, quelle in cui si stendono i panni sporchi, si concentrano gli sforzi per demolire la controparte e gli avvocati possono mostrare il meglio e soprattutto il peggio di sé …

… Una vita insieme spazzata via, in questo giorno infausto, in circa 27 minuti: è il tempo processuale che occorre in media in Italia per emettere provvedimenti provvisori, che come tutto il provvisorio italiano, diventeranno di fatto definitivi. Puoi trovare giudici che dedicano un’ora e mezzo alla decisione, altri tre quarti d’ora, e altri quindici minuti, o forse meno, per questa fondamentale fase iniziale della separazione giudiziale…

… Questi cittadini, dopo aver assaggiato il gusto amaro di un procedimento sgangherato, si sentono più soli e più delusi di prima. Avevano sperato che la loro causa fosse qualcosa di più solenne, di più serio, di più umano, come avrebbe certamente meritato la loro storia personale. Non una comune pratica da sbrigare nel più breve tempo possibile…”

Ma … com’è possibile non parlare delle proprie emozioni, far finta che non ci siano o relegarle in un angolo, quando nella fase separativa proprio l’emotività, la rabbia, il dolore, il senso di delusione, di fallimento e di frustrazione sono i sentimenti che dominano ed impediscono ogni forma di comunicazione ed una interazione dialettica costruttiva nella coppia? Come si fa a negoziare e/o ad accettare condizioni senza aver prima esternato i bisogni e le emozioni che travolgono i cuori di una coppia che si separa?  Solo quando l’astio ed il livore si saranno placati tra le parti si potrà iniziare a parlare, discutere, comunicare, negoziare. 

In tale prospettiva, il Mediatore diventa un “traghettatore”, come lo definisce icasticamente il Prof. Vittorio Cigoli[4], è una figura indispensabile assurgendo a facilitatore per il recupero di una comunicazione tra le parti, altrimenti irrimediabilmente compromessa, ma tanto necessaria, soprattutto quando sono in gioco gli interessi e l’equilibrato sviluppo psico-fisico dei figli. Spesso, sono proprio le insufficienti modalità di comunicazione e l’assenza di consapevolezza di tale carenza, ad incentivare comportamenti conflittuali che possono degenerare in forme croniche di non ascolto [5].

La Mediazione familiare si propone, dunque, non come percorso alternativo o contrapposto a quello giudiziario, bensì come spazio privilegiato che all’interno, o ancor prima dell’inizio di un  processo, come quello della separazione, consente alle coppie che vivono la fine della propria unione, di esternare le proprie emozioni, il proprio dolore, la propria rabbia, il senso di fallimento e di frustrazione che le pervade, di recuperare, quindi, autostima e consapevolezza del proprio “io”, fiducia in se stessi e verso il partner, attraverso la possibilità di “dirsi delle cose” e di ascoltarsi, senza tema di essere sopraffatti dall’altro.

Solo così può superarsi la logica negativa del conflitto, che vede un perdente ed un vincitore – logica alla quale il nostro sistema sociale ci ha da sempre abituati a rispondere, e ristabilire la comunicazione e, quindi, iniziare a discutere, confrontarsi, negoziare; in altri termini, gestire il conflitto in maniera reciprocamente “vincente”.

E’ evidente che l’accordo negoziato, accettato, condiviso, scientemente voluto dai componenti della coppia attraverso il percorso di Mediazione familiare, nel quale ciascuno di essi è stato co-protagonista e co-artefice del nuovo assetto negoziale che regolamenterà la vita propria e quella dei figli, successivamente all’evento separativo, avrà maggiori probabilità di essere mantenuto nel tempo, poiché elaborato con soddisfazione nel rispetto dei bisogni e  delle esigenze esternate, definite e condivise  dalla coppia stessa nella stanza di mediazione.

Ecco allora che la trama dei diritti e dei doveri coniugali e/o delle responsabilità genitoriali che comporrà il contenuto del verbale di mediazione e, dunque, dell’accordo finale che sarà allegato al ricorso congiunto, non rappresenterà per la coppia un’aprioristica applicazione di norme giuridiche avulsa dal vissuto personale della coppia e dal sostrato emotivo ed affettivo connesso all’evento separativo.

La Mediazione familiare è strumento per una gestione positiva, propulsiva e costruttiva del conflitto di coppia, rispetto al quale il Diritto costituisce una cornice normativa. Si muove, dunque, su un rettilineo parallelo a quello legale, comunque necessario ed indispensabile: l’Avvocato, al quale le parti si rivolgono più frequentemente nel momento più acuto della crisi, dopo aver raccolto le istanze del proprio Cliente, può consigliare un percorso di Mediazione familiare, garantendo la sua assistenza durante lo stesso per una consulenza legale ove richiesta, preclusa al Mediatore familiare, in un’ottica di sinergica collaborazione tra le due figure professionali, intervenendo, infine, nella fase successiva della verifica dell’accordo concluso dalla coppia all’esito del percorso mediativo.

La Mediazione familiare è una preziosa risorsa per la coppia:  è strumento di sostegno alle coppie travolte dalla vicenda separativa e dalla congerie di sentimenti propri di questa fase; è, altresì, strumento di sostegno alla genitorialità, rectius di attuazione di una effettiva bi-genitorialità o responsabilità genitoriale condivisa, poiché è la stessa coppia genitoriale che, attraverso il processo negoziale proprio del percorso mediativo, può decidere tempi e modi di frequentazione dei comuni figli, maturando la piena consapevolezza che dopo la fine di una relazione, coniugi o compagni di vita non si è più, ma genitori si è e si rimane per sempre.

In altri termini, sono le parti personalmente che stabiliscono come riempire di contenuto il diritto dei propri figli, affermato e riconosciuto dalla normativa nazionale e sovranazionale[6], a “mantenere un  rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

E’ un dato all’evidenza di tutti che proprio i figli finiscono per subire assai spesso le conseguenze dei sentimenti di vendetta personale, di rabbia e di dolore che investono la coppia nella fase patologica della propria relazione.

La condizione più dolorosa per un figlio è quella di sentirsi conteso tra i genitori in guerra, di non sentirsi ascoltato ma strumentalizzato per i fini egoistici dei propri genitori, accecati dalla rabbia e dall’astio reciproco.

In casi siffatti, accade, purtroppo di frequente, che un genitore cerchi, e costruisca, un vero e proprio rapporto di alleanza col figlio, “tirandolo” dalla sua parte, mettendo in atto su di lui una subdola opera di condizionamento psichico o di vera e propria manipolazione tesa alla denigrazione dell’altro genitore ed al conseguente allontanamento del figlio, che può arrivare fino al vero e proprio rifiuto, da parte di costui, del genitore denigrato e della rete parentale ad esso legata (nonni, zii, cugini, ecc.), in barba al tanto declamato “affido condiviso” ed in  spregio al diritto dei minori di mantenere rapporti equilibrati e significativi con entrambi i genitori, con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

Nota a tutti è la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 29.01.2013, con la quale l’Italia è stata condannata per non aver permesso ad un padre separato di vedere con continuità la figlia dopo la separazione dall’ex compagna, in violazione dell’art. 8 della Convenzione che garantisce il rispetto della vita privata e familiare. I Giudici europei hanno sollecitato l’Italia a dotarsi di strumenti efficaci per l’esecuzione dei provvedimenti dei Giudici nazionali, che altrimenti rimangono lettera morta; strumenti che non devono limitarsi ad assicurare che il bambino possa incontrare il suo genitore o avere contatti con lui, ma devono essere adeguati: “le misure deputate a riavvicinare il genitore con suo figlio devono essere attuate rapidamente, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quelle dei genitori che non vive con lui”. Non deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche.

Chiamati a prendersi cura del minore sono entrambi i genitori, anche in caso di cessazione dell’unione coniugale o di fatto, in modo condiviso tra loro, senza distinguere tra il genitore che partecipa della vita quotidiana del figlio e quello che soddisfa esclusivamente le esigenze ludiche e che frequenta prevalentemente nel tempo libero.

La ratio ispiratrice della legge sull’affido condiviso (Legge n. 54/2006) risiede nella tutela del fondamentale diritto del minore ad avere entrambi i genitori, ai quali viene attribuita una maggiore responsabilizzazione nell’ottica di un’imperativa crescita equilibrata del minore; è il diritto del minore ad avere la priorità sul diritto dei padri e sul diritto delle madri, regola che non può subire eccezioni che non siano giuridicamente fondate. In altri termini, l’affido condiviso non si pone a tutela né del ruolo materno né del ruolo paterno.

I genitori separati, a cui il figlio sia stato affidato in modo condiviso tra loro, hanno entrambi l’esercizio della potestà, ed in quanto chiamati allo stesso modo alle proprie responsabilità genitoriali, sono tenuti entrambi ad occuparsi del comune figlio, mediante la condivisione di uno stesso indirizzo educativo; provvedendo, congiuntamente o secondo una concordata distribuzione di compiti, ad assicurargli abbigliamento, calzature, cure mediche, libri e materiale scolastico; interessandosi del suo rendimento a scuola e seguendolo entrambi nello svolgimento dei compiti; dando ascolto ad eventuali bisogni ed esigenze del figlio, compresa quella di dedicarsi ad attività ludico-ricreative e/o sportive;  adottando, infine, di comune accordo le decisioni più importanti per la sua vita.

La condivisione, diversa dalla co-decisione propria dell’affidamento congiunto[7], implica la possibilità per la coppia genitoriale di organizzare le relazioni familiari secondo la propria volontà dispositiva, muovendo dal necessario presupposto della fiducia nell’altro e del rispetto delle sue decisioni.

A dire il vero, le formule stereotipate con le quali vengono regolamentate dai Giudici le modalità attuative del pur dichiarato affido condiviso del minore ai genitori, nei procedimenti di  separazione personale, di divorzio o in quelli che riguardano l’affidamento ed il mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio, appaiono essere le formule proprie del modello di affidamento monogenitoriale, poiché il più delle volte viene individuato da un lato, il genitore, definito “collocatario” che condivide di fatto la quotidianità del figlio ed assume su di sé in modo prevalente, e talvolta esclusivo, anche le responsabilità e gli oneri economici conseguenti, e dall’altro, il genitore non convivente, che esercita un “diritto di visita” secondo una calendarizzazione in giorni ed orari prestabiliti, la cui inosservanza è spesso causa di nuove liti e di nuovi contrasti.

D’altra parte, i dati statistici registrano che nel nostro Paese l’affido condiviso non supera di fatto il 5% dei casi, benché l’89% delle sentenze di separazione stabilisca che il minore è affidato ad entrambi i genitori, senza considerare, poi, che il più delle volte il minore mantiene rapporti continuativi con gli ascendenti e solo con la rete parentale del genitore c.d. collocatario.

Questo dato impone una riflessione, anche alla luce dei moniti che ci giungono dai Giudici europei: è fin troppo evidente che nel nostro Paese non sono adeguatamente valorizzati  strumenti che, invece, potrebbero favorire la concreta attuazione dell’affido condiviso, secondo il regime concepito ed ideato dal Legislatore della Legge n. 54/2006, in funzione di un’effettiva tutela dell’interesse superiore del minore, cui la Legge medesima si ispira.

Un valido ed efficace strumento in tal senso, è proprio la Mediazione familiare che, come detto, superando la logica agonistica della conflittualità, consente alla coppia di genitori di giungere, attraverso una terza persona riconosciuta da ambedue imparziale, qual è appunto il mediatore, ad un accordo condiviso sulla riorganizzazione delle proprie relazioni e, soprattutto, sulla ristrutturazione del loro  rapporto con i figli minori, regolamentandolo di comune intesa in tutti i suoi aspetti, dal tempo che ciascun genitore potrà trascorrere col minore alle esperienze di vita quotidiana che potrà condividere col medesimo, fino ad un’equa ridistribuzione di compiti e di responsabilità, dando concreta sostanza di contenuti al tanto declamato “affido condiviso”.

Da questo punto di vista, la migliore garanzia per i figli non è tanto rappresentata dal raggiungimento di un accordo che eviti il protrarsi della conflittualità, quanto soprattutto dall’essere collocati al di fuori dell’area dei possibili strumenti di sopraffazione reciproca dei genitori e poter mantenere, in tal modo, un rapporto equilibrato con entrambi, senza essere “ostaggio” di alcuno di essi.

Non si chiede, infatti, che i genitori smettano di litigare, ma che sappiano litigare e lo facciano nel modo giusto, tenendo presente, come afferma lo psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim, che “il modo in cui il genitore vive un evento cambia tutto per il bambino, perché è in base al vissuto del genitore che egli si crea la propria interpretazione del mondo”.

La Mediazione familiare quale strumento di mediazione dei conflitti nella famiglia e nella coppia in crisi può e deve diventare una nuova filosofia di vita, da sposare e fare propria in via preventiva ad ogni lite giudiziaria, che il più delle volte inasprisce il conflitto e distrugge in modo irreversibile le relazioni affettive, a discapito, ancora una volta, dei figli.

Tale strumento va valorizzato anzitutto in sede legislativa, poiché la Mediazione familiare, pur essendo una realtà nel nostro Paese da circa trent’anni, non ha ancora trovato cittadinanza nel nostro ordinamento attraverso un impianto normativo organico, che definisca la Mediazione familiare, regolamenti ed attribuisca autonoma dignità alla figura professionale del Mediatore familiare e ne disciplini l’ambito di operatività.

Non sono mancati, invero, disegni o proposte di legge in materia, elaborate su sollecitazione di singole Associazioni di categoria in Mediazione familiare,  ma nessuno di esse, sino ad oggi, è stato tradotta in legge.

L’auspicio è che anche il Legislatore si renda finalmente consapevole di quale preziosa risorsa rappresenti la Mediazione familiare e intervenga a colmare al più presto una lacuna normativa oramai non più accettabile.

[1] MARTELLO M., L’arte del mediatore dei conflitti, Giuffrè, Milano, 2008, 62.

[2] CANEVELLI F. – LUCARDI M., La Mediazione Familiare. Dalla rottura del legame al riconoscimento dell’altro, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, 197.

[3] GASSANI G. E., I Perplessi Sposi, Aliberti Editore, Roma, 2011, 19 ss.

[4] Professore Emerito e docente di Psicologia Clinica dei Legami Familiari presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È Direttore dell’Alta Scuola di Psicologia “A. Gemelli”, dove dirige i Master Universitari di Mediazione Familiare e Comunitaria e di Clinica delle relazioni di Coppia. Dirige la collana “Psicologia sociale e clinica familiare” della Franco Angeli Editore e fa parte di numerosi comitati editoriali di riviste scientifiche.

[5] SPADARO G.-CHIARAVALLOTI S., L’interesse del minore nella Mediazione familiare, Giuffrè, Milano, 2012, 168

[6] In particolare, l’art. 9, comma 3, della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 20.11.1989 (ratificata dall’Italia con L. n. 176 del 27.05.1991 e dichiarata immediatamente precettiva nel nostro ordinamento dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 1 del 16.01.2002), impone a tutti gli Stati aderenti il rispetto del fondamentale “diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo”; l’art. 24, comma 3, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre del 2000, statuisce: “Ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse.”

[7] La formula dell’affidamento congiunto è stato adottato, prima dell’introduzione dell’affido condiviso, solo nei casi di lieve o inesistente conflittualità di coppia, poiché basata sul consenso unanime dei genitori su tutte le decisioni riguardanti i figli, sia di ordinaria che di straordinaria amministrazione.